La pandemia e l’avvento totalizzante delle tecnologie digitali hanno reso agevole per tutti la comprensione di un concetto che prima dell’emergenza era appena entrato nel lessico scolastico e sociale e cioè quello di povertà educativa. Fino a qualche tempo fa si parlava di analfabetismo di ritorno o di analfabetismo funzionale e dentro queste distinzioni sociologiche era nata tutta la problematica relativa ai Bes (Bisogni Educativi Speciali), vissuti da una parte del sistema scolastico nazionale come l’ennesimo tentativo di sdoganare i fannulloni, da un’altra parte come una vera emergenza con potenzialità distruttive, da un’altra parte ancora come un elemento da catalogare senza avere bene chiaro in mente poi di cosa farsene di questa catalogazione.
Dietro il concetto di povertà educativa ci sono due macro categorie: quella di isolamento e quella di deprivazione. I vari loockdown e un anno e mezzo di grandi incertezze delle classi politiche e di quelle educanti hanno reso macroscopico il problema. La novità è che la povertà educativa è diventata una categoria non difficile da individuare e che va al di là della volontà del singolo. E’ indifferente, dentro questa categoria, se un ragazzo si chiude in camera e dialoga solo con lo smartphone perché sta male, perché è depresso o perché è un fannullone o perché sta deviando: comunque siamo dentro ad un problema e ad una vera povertà educativa e solo questo è il dato da cui partire. Le famiglie non sono tutte attrezzate allo stesso modo e una stessa povertà educativa può dare esiti diversi: un figlio ci sta dentro fino al collo, un altro figlio invece riesce, pur vivendo nello stesso ambiente, ad affrancarsi dalla povertà educativa familiare e a salire sul famoso, anche se acciaccato, ascensore sociale.