Ripensare lo Stato sociale dalle fondamenta: dalle leggi di fine anni ’70 al Terzo settore.

di Paola Di Michele

 

C’è un quadro bellissimo, arcinoto, di Pellizza Da Volpedo che rappresenta il Terzo Stato in marcia. Fatto di gente povera, vestita male ma con lo sguardo dignitoso e deciso proteso al futuro di chi cerca di conquistare il proprio pezzetto di dignità. E c’è un movimento nascente di lavoratori, operatori del sociale, che comincia adesso a prendere coscienza di condizioni lavorative diventate ormai al limite della sopportazione.
Per capirci, mi riferisco alle Cooperative Sociali di tipo A, cui l’ISTAT assegna un totale di lavoratori di circa 380.000 unità, per un indotto di più di 8 miliardi di euro, e che si suddivide in servizi scolastici educativi, servizi domiciliari socioassistenziali, socioeducativi, sociosanitari, centri diurni, centri di accoglienza, case-famiglia, nidi, e altro. Fondi che lo Stato stanzia alle Cooperative Sociali e che per meno della metà giungono nelle mani dei lavoratori.

Facciamo un piccolo passo indietro. Quando nasce questa situazione? Alla fine degli Anni Settanta, in un lasso di tempo brevissimo, appena un biennio, si può collocare la nascita del moderno Stato Sociale in Italia.
A fare da spartiacque sono una serie di leggi: la Legge 517/77, che abolisce le classi differenziali nelle scuole italiane e introduce le figure dell’insegnante di sostegno e dell’assistente all’autonomia e la comunicazione; la Legge 833/78, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, introducendo un modello universale di tutela della salute, intesa come stato di «completo benessere psico-fisico», perseguendo gli obiettivi di equità, partecipazione democratica, globalità degli interventi, coordinamento tra le Istituzioni, attraverso la territorializzazione dei servizi di assistenza sanitaria (oggi ASL); la Legge 180/78, cosiddetta “Legge Basaglia”, che abolisce le strutture manicomiali, e rimane riforma a metà anche a causa della morte dello stesso Basaglia che la voleva più compiuta, con le strutture territoriali di accoglienza che avrebbero sostituito l’istituzione totale manicomiale.
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Un tagliando per l’autonomia scolastica

Stefaneldi Pietro Calascibetta

E’ recente la pubblicazione di un «Manifesto per la nuova Scuola» firmato da noti intellettuali italiani e da alcuni docenti.
Si tratta dell’ennesima chiamata a raccolta di quella fetta di opinione pubblica da sempre contraria per scelta ideologica all’autonomia e alle riforme che hanno ridisegnato negli ultimi venti anni l’assetto dell’istruzione pubblica in Italia.
La novità è che questo documento, approfittando dell’attuale contesto, cerca di intercettare il disorientamento del momento di alcuni settori della popolazione e di parte dello stesso corpo docente per trovare nuovi follower per sostenere il superamento dell’autonomia e delle «disastrose riforme».

UN NUOVO CONTESTO PER UNA VECCHIA QUERELLE

Ci sono tre nuove opportunità da non sottovalutare che si sono aperte per i firmatari del «Manifesto».
La prima sul piano psicologico. Dopo la pandemia siamo in presenza di un’opinione pubblica desiderosa di voltare pagina su tutto con lo slogan “Tutto non sarà come prima”, che altro non è che una formula magica per far apparire come “nuova” qualsiasi cosa, basta che possa sostituire l’esistente, nel nostro caso anche la scuola gentiliana pare essere una novità al posto dell’autonomia.

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Saperi, futuro e destino umano

di Giovanni Fioravanti

L’otto luglio Edgar Morin, uno dei più grandi intellettuali contemporanei, raggiungerà il traguardo del secolo.
Troppo complesso per essere preso sul serio, lui iniziatore del pensiero complesso, della necessità di una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi a cui siamo ancora abbarbicati, semmai rivendicata come merito del passato da una scuola incapace di preparare al pensiero della complessità. La conoscenza è avventura e la scuola è parte del territorio in cui vivere questa avventura, in cui apprendere a conoscere e a ri-conoscere la conoscenza. La palestra in cui esercitarsi fin da piccoli alla metacognizione, a interrogarsi, a nutrire la curiosità, a inseguire lo stupore.
Il compito dell’istruzione non può ridursi all’angustia di formare cittadini da integrare nella società presente, né in ipotetiche società future, le categorie pedagogiche degli Stati-Nazione come le pedagogie progressive del Novecento hanno fatto il loro tempo.

Morin ci rappresenta il nostro pianeta come una nave spaziale che viaggia grazie alla propulsione di quattro motori scatenati: scienza, tecnica, industria, profitto e dove nello stesso tempo la minaccia nucleare e la minaccia ecologica impongono alla umanità una comunità di destino, non c’è possibile futuro che valga la pena costruire se non riscoprendo la centralità di ogni donna e di ogni uomo, la centralità dell’intelligenza, la centralità del pensare oggi  per il futuro. In gioco non è l’integrazione culturale nella propria comunità, in gioco per tutti, da ogni lato della Terra, è la vivibilità del futuro. L’asfittico obiettivo dei sistemi scolastici nazionali è soppiantato dal ben più impegnativo e difficile compito di attrezzare le giovani generazioni a vivere un futuro vivibile. L’Agenda 2030 dell’Onu è lì a ricordarcelo in ogni istante.

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Scuola e digitale, è una questione di testa non di età

di Gianfranco Scialpi

Scuola e digitale, l’intervista del Ministro Bianchi collega la competenza all’età.
La questione è più complessa e riguarda la testa.

Scuola e digitale, l’intervista del Ministro

Scuola e digitale. Il Ministro ha rilasciato un’intervista.
La questione del rapporto con l’uso dei dispositivi elettronici è liquidata, riducendo tutto all’età.
Si legge su Repubblica.it: “Tutti i ragazzi che vanno a scuola sono nati in questo secolo, tutti gli
insegnanti nel secolo precedente. Non è una differenza da poco. I ragazzi hanno una capacità
innata di utilizzare gli strumenti digitali. Dobbiamo, già da questa estate, promuovere una scuola più aperta, consapevole del fatto che le competenze del passato possiamo esprimerle in modi diversi; ma anche del fatto che con queste macchine, possiamo fare cose mai fatte prima.
Dobbiamo usare il digitale per aprire le scuole, connetterle fra loro.”

La situazione è più complessa. Gli immigrati digitali

A mio parere il passaggio riportato, ha il pregio di semplificare, ma anche di distorcere la realtà.
Stando alle definizioni di M. Prensky (2001), da una parte ci sono i nativi digitali molto competenti e dall’altra gli immigrati digitali identificati con gli insegnanti che a parere del Ministro faticano nell’alfabetizzazione informatica e nell’acquisizione delle relative competenze. Ora la quotidianità ci restituisce una diversa realtà. Innanzitutto occorre dire che molti maestri e professori hanno colonizzato prima dei ragazzi gli ambienti virtuali.

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Inclusione scolastica: quale formazione e con quali strumenti

di Redazione

Un interessante confronto con tre esperti di disabilità, di governance e di relazioni sindacali sulle 25 ore di formazione, per tutti gli insegnanti, dedicate all’inclusione scolastica.
Raffaele Iosa, Franco De Anna e Massimo Nutini si dicono convinti che il diritto all’inclusione prevale sulle questioni sindacali e, quindi, sulla legittimità delle previsione secondo la quale la formazione è stata definita obbligatoria, come peraltro lo è quella sulla sicurezza sui luoghi di lavoro e sulla privacy.
Dai loro interventi, però, emergono anche spazi per una ricomposizione con le posizioni dei sindacati in quanto non si esclude che momenti di progettazione su casi concreti possano essere ricompresi nelle 25 ore e neppure che parte di tali ore possano essere postate all’anno successivo.
La preoccupazione principale dei tre esperti, però, non è connessa alle questioni sollevate dai sindacati, che vengono considerate addirittura svianti rispetto ai temi prioritari.

La questione principale è la riflessione su come realizzare una formazione così su larga scala che sia veramente efficace per promuovere una didattica inclusiva.
Per questo è necessaria una formazione che non si riduca agli aspetti normativi ma che entri nel cuore dei temi di carattere pedagogico e culturale; una formazione che coinvolga tutto il personale e che sia capace di trovare momenti anche con gli assistenti educatori degli enti locali e con i collaboratori scolastici.

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