Sulla scuola e sulla pedagogia, frammenti di riflessione

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di Raimondo Giunta 

La pedagogia è l’attività di riflessione che si esercita sull’azione educativa per poterne delineare in modo persuasivo le finalità e le procedure ad esse congruenti. Riflette sull’educazione come oggetto e sull’educazione come progetto, soprattutto se e quando si vuole mettere in campo un’idea di umanità e di società che abbia come valori fondanti la libertà, la dignità e la responsabilità delle persone.
Ripensando l’azione educativa nei suoi molteplici aspetti è possibile migliorarla e renderla adeguata alle varie e diverse esigenze umane per le quali è indispensabile. Con questa necessaria e continua opera di riflessione la scuola può essere ancora un luogo di speranza per i giovani e superare le difficoltà che la stanno soffocando.

La pedagogia è l’educazione che si pensa, che si parla, che si giudica, che si progetta.
“La pedagogia è l’insieme delle strategie che l’intelligenza dispiega in una società, affinché l’arbitrarietà di un’educazione bene o mal fatta ceda il posto alla scelta di fare meglio” (E. Durkheim-1911).
La pedagogia come scienza è un tributo rituale alla cultura di tipo scientista; sarebbe peraltro una scienza senza l’onere e la responsabilità di portare le prove. . .
La pedagogia non è nemmeno l’insieme delle cosiddette scienze dell’educazione, in grado forse di rispondere alla domanda “COME”, ma non a quella “PERCHE’ ” educare.

Come ogni attività che abbia come campo d’applicazione ciò che è umano, l’attività educativa rinvia al discernimento, alla capacità di cogliere le occasioni e di decidere alla luce di conoscenze solide e con l’aiuto di tutti i mezzi disponibili nella consapevolezza dei problemi da affrontare. In quanto praxis l’educazione non può pretendere di avere fondamenta inconfutabili. Il suo discorso può essere allora più che una dimostrazione un racconto o l’esplicitazione di un “exemplum”.
Pensare l’educazione come praxis aiuta ad accettarla come incontro con l’alunno con tutte le sue difficoltà e resistenze. “L’educazione è l’insieme dei processi che permettono ad ogni bambino di accedere progressivamente alla cultura, essendo la cultura ciò che distingue l’uomo dall’animale” (O, Reboul, 1989, La filosofia dell’educazione).

“L’uomo non è uomo se non per l’educazione”(Kant).

Il rifiuto della pedagogia è un esercizio inutile di iattanza accademica che stride con la problematicità e la drammaticità dell’azione educativa nella società contemporanea. Istruire senza educare è un mito di stampo positivistico che non funziona più. Istruire è sempre scegliere un tipo d’uomo e di società anche quando si pensa di non farlo. Nel processo formativo ci si illude di evitare le scelte di valore e il rifiuto della responsabilità educativa è ingiustificabile in un momento in cui molti dimostrano di non volersela prendere. La pedagogia buona è quella schierata per un sapere che libera e pensa che questa liberazione si costruisca attraverso il sapere.
La pedagogia è situata all’incrocio tra educazione reale, educazione possibile ed educazione “sperata”.

La riflessione pedagogica è indispensabile per contestualizzare il discorso formativo e per poterne rinnovare le pratiche in una situazione di sovvertimento continuo dei saperi e dei paradigmi scientifici. I curricoli da realizzare a scuola devono essere aperti, flessibili e innovanti nei contenuti; non definitivi come lo sono i diversi paradigmi della ricerca scientifica, ma devono conservare una certa stabilità nelle finalità formative.
E’ il modo per mettersi in sintonia con il mondo che cambia, salvaguardando la loro funzione educativa.

L’attività educativa ha una dimensione naturale di prefigurazione, di progettualità, di futuro, di liberazione e solo per abdicazione può essere piegata ad una logica dell’adattamento alle condizioni date. Senza finalità non c’è attività educativa.
Le finalità ci conducono a scelte di valore che oltrepassano sempre quelle pragmatiche dell’efficacia e dell’efficienza, alle quali si finisce per rifugiarsi talvolta in nome di un malinteso senso di razionalità. Le finalità devono aiutarci a comprendere in quale mondo vogliamo vivere, quale avvenire speriamo per i nostri figli, quali saperi occorre trasmettere, quale tipo di cultura si dovrebbe privilegiare. La problematizzazione delle finalità educative è pedagogia.

C’è buona educazione dove e se si coltiva la libertà dell’uomo, quando ci si può costruire in libertà e dignità a partire dalle condizioni in cui ci si trova. Educare, allora, per promuovere la libertà di ciascuno e non per agire in conformità ad un gruppo di appartenenza, anche se non si possono mettere in opposizione emancipazione e integrazione sociale. Il principio di libertà è essenziale nell’educazione, se non si vuole che essa diventi manipolazione; quello di integrazione, se si vuole valorizzare la dimensione sociale della persona.
Solo in quanto soggetto, autore e attore della propria vita capace di mettersi in rapporto con altri soggetti e con le appartenenze che li caratterizzano (etnica, religiosa, politica, locale etc. ) la persona può dare un senso e una direzione alla propria esistenza. Il soggetto di cui si deve occupare la pedagogia è il soggetto che costitutivamente è posto tra gli altri.

Il buon educatore è colui che fa posto all’esistenza dell’alunno, alla sua singolarità tra programmi, regole e valutazioni e ne capisce, quando sopravvengono, le sue resistenze, le sue difficoltà, i suoi rifiuti.
L’educatore si interroga sulle resistenze dell’altro e non tenta di violarle. Per paradosso si può dire che compito dell’educatore è quello di educare gli ineducabili.
Il momento educativo si realizza nell’accettazione di un qualcuno che non si lascia dimenticare e che non vuole essere ricondotto all’anonimato di un gruppo indifferenziato (classe, istituto, ambiente).
E’ impossibile e non ha senso pensare di dominare l’irriducibilità del soggetto. Questo ci ricorda la buona pedagogia. “Andare fino in fondo all’esigenza di singolarità è darsi la più grande chance di accedere all’universalità”(P. Ricoeur).

L’educazione è una relazione asimmetrica, necessaria, ma provvisoria la cui attività deve scomparire man mano che comincia ad emergere l’autonomia del soggetto e la sua capacità di valorizzare le potenzialità, che lo distinguono.
Educare significa formare l’intelligenza e forgiare la personalità dell’alunno, accettarne l’estraneità e anche l’avversione, prenderlo com’è e rinunciare al rapporto di forza; curare l’umanità nelle relazioni pedagogiche. Proprio per questo vi è della sofferenza nel rapporto educativo, perchè ogni costrizione è una sconfitta.
Per educare bisogna avere dell’umiltà.

A scuola si deve coltivare la capacità riflessiva come requisito per esplorare il significato dei valori costitutivi della cittadinanza e per appropriarsi della dimensione sociale e problematica dei saperi. Ricondurre il sapere ai problemi che l’hanno generato è necessario per recuperarne la connotazione esistenziale, per comprendere cosa sia una “theoria” autentica. Curiosità e spirito critico sono le espressioni naturali dell’atteggiamento problematico, che occorre orientare e sviluppare: la prima naturalmente proiettata verso il futuro, il secondo alla ricerca dei fondamenti dei problemi.

L’obiettivo più alto dell’educazione è comprendere; più alto ancora di quello di riuscire. Educare perchè si impari a porre e a porsi delle domande; a pensare il rigore e la radicalità delle domande: bisogna dare gli strumenti per potere discutere e dialogare, per potere resistere al sovvertimento delle evidenze con cui quotidianamente si cerca di manipolare le coscienze. La scuola dovrebbe essere un luogo dove si può sbagliare, senza rischiare nulla (Meirieu).
“La classe è un luogo dove la verità di una parola non è relativa allo status di colui che la pronuncia”(B. Rey).
Una pedagogia aperta deve misurarsi, però, con quella parte di disordine, di negoziazione che essa comporta. In pedagogia non è possibile aprire il registro delle certezze.

La scuola deve mediare tra ciò che vuole la società e ciò che vuole la famiglia: ci sono cose, però, che lo Stato per conto della società non può fare e cose che la famiglia non può pretendere; la scuola non sostituisce la famiglia, dà una propria socializzazione, che non può prescindere dalla quella familiare (che occorre conoscere e interpretare e se necessario contrastare). D’altra parte la famiglia non può pretendere che la scuola sia la semplice prosecuzione della propria cultura d’appartenenza.

La scuola si definisce in separazione dalla vita e dalla quotidianità; ci sono barriere che nessuna parola d’ordine sull’apertura può cancellare.
Andare oltre l’aula non può significare sovvertire la logica della cultura scolastica, ma superare i dispositivi tradizionali che fanno capo solo all’aula, misurarsi con la dimensione dell’attività, della riflessività, della contestualità e dell’esperienza.

Il mondo della scuola non può chiudersi nel recinto rassicurante delle proprie tradizioni e della propria identità, ma deve aprirsi al cambiamento e alla riflessione sulla propria collocazione nella società. Il vecchio paradigma formativo da cui si cerca con fatica di uscire dipendeva essenzialmente dalla qualità degli insegnanti, aveva vincoli di spazio e di tempo, era imperniato essenzialmente sul linguaggio verbale e disponeva di tecnologie limitate. Il modello formativo che lo deve sostituire evoca l’auto-apprendimento e limita il ruolo del docente; tende a privilegiare il gruppo di lavoro come comunità d’apprendimento, in modo che i discenti possano imparare interagendo e dialogando tra di loro; affianca a quelli verbali altri linguaggi e vive in ambiente tecnologico.

Uno dei compiti più difficili da affrontare oggi è quello di ricondurre i giovani cresciuti nel mondo virtuale alla serietà dei problemi del mondo reale. Rompere l’involucro gratificante dell’irrealtà per misurarsi con le fatiche quotidiane di conoscenza e di lavoro non sarà facile, ma è la nuova missione educativa della scuola e degli insegnanti.

L’educazione dei giovani è un’impresa collettiva e non il risultato casuale di contributi individuali degli insegnanti e di altre figure di adulti. Il problema è lavorare insieme, imparare l’uno dall”altro; essere una comunità professionale, dove si è reciprocamente risorsa per l’altro. Dare e ricevere aiuto non significa essere incompetenti, ma partecipare alla ricerca comune per rendere migliore l’apprendimento dei giovani.

Una buona scuola è una comunità di adulti che prende in carico una comunità di alunni, e non un guazzabuglio informe di ore di lezioni.