Le 25 ore di formazione sull’inclusione: come farle fallire nell’indifferenza generale
L’amico e collega Mario Maviglia, in un recentissimo articolo su Nuovo Pavone Risorse dal titolo “Come uccidere la formazione senza essere scoperti” descrive criticamente le 25 ore di formazione “obbligatoria” sulla disabilità previste dalla Legge finanziaria 2021 (10 milioni di euro) che sta insabbiandosi per i niet sindacali sul “contratto dovere-diritto”, cioè il nulla e per una organizzazione arruffata e frettolosa che dovrebbe concludersi….da oggi entro metà novembre, perché i ragionieri del MIUR devono rendicontare.
Riprendo il tema con grande tristezza.
Ad un anno dalla finanziaria, dopo discussioni infinite esce un corso militarizzato e generico offerto ai docenti curricolari che nulla sanno di disabilità. Lo scopo sarebbe quanto mai nobile: sensibilizzare anche i curricolari su un tema inclusivo delicatissimo perché troppo spesso “delegano” ai poveri “sostegni” l’inclusione facendo finta di nulla. Nel suo piccolo, sarebbe stata un’occasione d’oro, se pensata bene, di un primo dovere deontologico da espletare ampliando la conoscenza per tutti di un tema molto delicato. Mi sarei atteso dai sindacati (almeno quelli confederali, quelli dei soi disant “diritti”) un’attenzione diversa dei niet a priori, ma invece un’attenzione maggiore alla qualità formativa, visto la delicatezza “sociale” del tema.
Il Ministero è così “strano” che nell’ ultima circolare “invita” gli insegnanti curricolari a partecipare e con questo verbo crea confusione massima se si deve o si può. Insomma il rischio è di corsi in fretta e furia (la sveltina pedagogica) e realizzata nel caos gestionale sul diritto/dovere.
Si fa presto a riderci sopra, ma che tristezza. Il dilemma diritto/dovere alla formazione resta una burla, e il rischio è di un flop, che pagheranno (come sempre) gli alunni con disabilità.
Preso dalla rabbia civile, racconto qui due storie che ho raccolto in Europa su come si fa formazione. Non per invidia di chi è più bravo di noi, ma per capire come siamo fuori dal mondo.
Storia Germania: racconta un collega ispettore tedesco, in un incontro anni fa in Italia, che “tutti gli insegnanti da loro fanno almeno 15 giorni all’anno di formazione su temi comuni ed elettivi. Sono ospitati in alberghi ad hoc, spesso castelli recuperati, con una buona cucina perché si cura l’ospitalità degli insegnanti”. La riunione avviene negli anni in cui in Italia c’era per contratto il “bonus formazione” che rendeva possibile uno scatto di carriera. Più di un italiano presente fa la domanda delle domande: “Ma è davvero obbligatorio? Cosa ci guadagnano a fare questi corsi? E se un insegnante tedesco dice no cosa gli succede?”. Il collega tedesco fa fatica a capire, non sa del bonus. Poi risponde “Gli insegnanti hanno il viaggio pagato e il soggiorno gratuito, in alberghi molto belli. Non serve altro”. Non so perché ci tiene anche a ricordare la buona cucina. Poi continua “Se un insegnante tedesco non partecipa gli accade la cosa peggiore che può capitare ad un insegnante tedesco: la riprovazione dei colleghi!”. Ah, la terra del beruf di Lutero!
Storia URSS: una sindacalista sovietica, ai tempi di Gorbaciov, mi racconta cosa succede agli insegnanti sovietici: “ogni sette anni circa, hanno tre/quattro mesi di soggiorno gratuito in Crimea, organizzati dal sindacato”.
Finalmente al caldo: pensate un insegnante che viene da Irkutsk o Arckangels”.
Poi continua: “In quei mesi, si rifà i denti se serve, fa le terme, si fa curare se ha particolari malattie. E intanto fa dei corsi di formazione su diversi temi”.
Poi alla fine un esame: “Promosso (aumento stipendio), rimandato (rifà i corsi al freddo nella sua città), bocciato: cambia mestiere”.
A me l’idea della Crimea-sanatorio del corpo e della mente fa un simpatico e salutare effetto. PS. I paesi dell’ex Urss (tutti, dal Kazakistan alla Lituania) considerano gli insegnanti con grande rispetto e stima. Non c’è la divisione tra maestri e professori (sono tutti chiamati “maestri”), vengono da lauree pedagogiche prima che disciplinari.
Non a caso sono gli unici che vengono chiamati col patronimico, che neppure verso Putin si usa quasi più.