Inclusione: forse per i dirigenti amministrativi ci vorrebbero 24 CFU
Due interessanti e puntuali articoli scritti dall’amico e collega Raffaele Iosa e pubblicati su queste pagine (Nuovo PEI annullato: azzeccagarbugli e scuole in difficoltà, 16/09/2021; Il tempo della scuola; il tempo della disabilità, 20/09/2021), mi offrono lo spunto per analizzare un aspetto implicitamente presente nei due contributi (soprattutto nel secondo), che merita di essere ulteriormente approfondito e disvelato. Mi riferisco all’equilibrio che vi deve essere, nelle norme riguardanti l’inclusione scolastica, tra gli aspetti amministrativi e quelli pedagogici.
Raffaele Iosa fa un’analisi molto calzante sul significato del tempo all’interno della disabilità, un tempo segnato da attese, da terapie spesso coincidenti con il tempo delle lezioni, dalle tante angosce per un tempo che scappa via e che proietta il disabile in un’età adulta (vero banco di prova per i processi inclusivi in una società matura) carica di incognite e di preoccupazioni, soprattutto per i genitori.
Se non si tengono presenti questi aspetti di carattere pedagogico e sociale, il tempo diventa una qualsiasi nozione burocratica, sganciata dalla specifica realtà delle persone disabili (persone, prim’ancora che disabili) ed allora si entra nei meandri asfittici ed impersonali del diritto amministrativo, che tutto omogeneizza e rende opaco. In parte è quanto avviene con la CM 2044 del 17/09/2021 che fornisce indicazioni operative alle scuole dopo la sentenza del TAR Lazio del 13/09/2021 che annulla il nuovo PEI introdotto con DI 182 del 29/12/2020.
Ci vogliono competenze giuridiche adeguate per condurre un’esegesi dell’intera vicenda; ma qui vogliamo fare un discorso più generale riguardante lo stretto intreccio che dovrebbe esserci tra la dimensione giuridico-amministrativa e quella psicopedagogica, soprattutto in un campo come quello dell’inclusione dei disabili a scuola. E allora, mentre possiamo immaginare che il management ministeriale abbia una certa preparazione a districarsi all’interno della materia giuridico-amministrativa (anche se la vicenda della sentenza del TAR citata sopra fa nascere qualche dubbio in proposito), c’è da chiedersi che tipo di competenze abbia per interpretare in modo adeguato i fenomeni pedagogici. E d’altro canto, se non si hanno competenze anche in questo campo si rischia di trattare la materia dell’inclusione alla stessa stregua dell’adozione dei libri di testo o delle tasse scolastiche.
Ed ecco perché, provocatoriamente (ma non tanto), bisognerebbe prevedere che la direzione di uffici così delicati per la vita di tante persone con problematiche di questa rilevanza, venisse affidata a dirigenti amministrativi che abbiano acquisito almeno 24 CFU nel campo della pedagogia e della psicopedagogia. D’altro canto, all’insegnante di sostegno viene richiesta la conoscenza degli aspetti giuridico-amministrativi dell’inclusione, oltre che specifiche competenze in campo psicopedagogico; perché questo non dovrebbe avvenire anche nei confronti di chi ha responsabilità dirigenziali in questo campo?
L’intreccio tra queste due dimensioni oggi appare molto labile se non inesistente e i risultati (negativi) si vedono. Se proprio non si vuole accogliere questa misura così “rivoluzionaria”, si tenti almeno di attenuare gli eventuali effetti perversi delle norme adottando due concomitanti interventi: a) prima dell’emanazione di una norma fare sempre un esame dell’impatto che questa avrà sulla popolazione di riferimento, una sorta di VIA (Valutazione Impatto Ambientale), per prevedere gli effetti sul piano organizzativo, relazionale e curricolare della norma e la sua sostenibilità per la popolazione e le istituzioni di riferimento (ovviamente ciò presuppone una grande capacità di decentramento da parte del decisore di turno che, forse, non è contemplata dai manuali di diritto amministrativo…); b) sempre nella fase istruttoria ed elaborativa della norma, e comunque prima della sua emanazione, richiedere una consulenza con esperti del settore (i dirigenti tecnici servono ancora a qualcosa?) per un riscontro sul piano psicopedagogico delle misure contenute nel provvedimento e la loro coerenza con il senso profondo dell’inclusione, e non solo il mero rispetto formale della norma. In altre parole, ci vorrebbe un maggior rispetto verso le istituzioni scolastiche e i suoi protagonisti, e soprattutto verso gli attori principali dell’azione educativa, ossia gli allievi, in modo particolare quando questi sono allievi che seguono percorsi di crescita non omologabili. Il principio inclusivo dell’accomodamento ragionevole di cui parla la Dichiarazione ONU 2006 dovrebbe ispirare anche l’attività amministrativa in materia, lontana quindi da quelle pastoie da leguleio che spesso la caratterizzano.