Il sistema istruzione del paese funziona male, ormai è molto tempo che mostra segni di invecchiamento tanto da far presagire il suo esaurimento, dunque non è questione né di Covid né di Dad.
Ora però siamo di fronte ad una svolta, il governo ha licenziato il PNRR che contiene quattro macro mission, dieci riforme e dodici investimenti per oltre diciannove miliardi con l’obiettivo del “Potenziamento dei servizi di istruzione: dagli asili nido alle università”, da realizzare da qui al 2026.
Asili nido, tempo pieno e mense, riduzione dei divari territoriali nella formazione, riforma degli istituti tecnici e professionali, sviluppo degli istituti tecnici superiori, riforma del sistema di orientamento. Nuove competenze e nuovi linguaggi, sviluppo del digitale e della didattica integrata, nuove aule didattiche e laboratori, riqualificazione dell’edilizia scolastica. E in fine riforma dell’organizzazione del sistema scolastico, riforma del sistema di formazione e reclutamento dei docenti.
Ma sorge un interrogativo: con quale cultura?
La cultura di un sistema formativo morente? Quali modelli? Quale idea di istruzione?
Il problema della cultura è rilevante in tutto il mondo.
Il nostro sistema scolastico è entrato nell’epoca della conoscenza con cui si è aperto questo secolo senza colpo ferire, sempre uguale a se stesso, come se il tempo fosse da sempre fermo.
Un treno con vagoni importanti al suo seguito, la media unica, la scuola di massa, la scuola a tempo pieno, i Decreti Delegati, la scuola della legge 517 del 1977: la scuola di tutti, la scuola del lavoro collegiale dei docenti, la scuola senza voti. Il sistema integrato zero-sei, l’autonomia scolastica.
Un treno su cui sono saliti personaggi come Loris Malaguzzi e Sergio Neri, Bruno Ciari, Don Milani e Mario Lodi. Ma in prima classe continuavano a sedere Gentile, Croce e Maritain, poco disposti a cedere il posto ai Piaget, agli Erikson, ai Bruner. Un treno di merci vecchie su cui si sono gettate, di volta in volta, quelle nuove un po’ alla rinfusa e con poca convinzione. Un treno ancora con le carrozze di prima: i licei, di seconda: gli istituti tecnici e, in fine, di terza, quelle con i sedili di legno, per la formazione professionale. Un treno che per troppi territori ha viaggiato a scartamento ridotto e che ancora perde passeggeri lungo il suo percorso. Un treno senza dubbio non attrezzato per attraversare le regioni della complessità, paradigma del nostro tempo.
Capitale umano non è una parolaccia, non è che persona e cittadino soggetti formativi del le nostre scuole siano meglio. Di fronte alla complessità l’umanità per salvarsi ha bisogno di capitale umano e il valore del capitale umano si misura in conoscenza. La centralità della conoscenza non perché funzionale al mercato ma perché funzionale alla nostra vita.
Veniamo dal secolo, quello scorso, dell’informazione e della formazione, abbiamo visto che nonostante l’enfasi attribuita a queste parole, esse servono a ben poco se non si traducono in conoscenza e da conoscenza in competenza, in padronanze per vivere, per dominare la nostra realtà, quella che ci circonda e quella che condividiamo con gli altri.
La conoscenza non è qualcosa che risiede a scuola, solo uno stupido potrebbe oggi coltivare un’idea simile. La conoscenza è ovunque, dalle reti del web al mondo universo, ovunque rintanata e ovunque si fa scoprire; scuole, biblioteche, musei, teatri e cinema ci offrono gli strumenti per conoscere, ce li insegnano, permettono di esercitarci nel loro uso, ma poi non c’è nulla della nostra vita che non sia conoscenza da farsi in proprio, da ricercare di continuo. Allora abbiamo necessità di apprendere da subito ad usare gli strumenti della conoscenza, da quando apriamo gli occhi sul panorama del mondo, su questo libro che non finiremo mai di sfogliare e di studiare, che passeremo agli altri dopo di noi, perché continuino a sfogliarlo e a studiarlo come hanno fatto quelli che sono venuti prima e ci hanno lasciato le loro pagine.
Dobbiamo assumere delle categorie nuove, degli a priori kantiani.
La conoscenza, lo studio, l’apprendimento appartengono a un tempo che mai ci abbandona, che ci sta addosso. Possiamo apprendere in tanti modi, gioiosi come quelli dei bambini, faticosi come quelli dell’adulto che si misura con la complessità, con le sfide di ciò che ancora non conosce, anche noiosi, poco interessanti, ma necessari. Ma un concetto ci deve essere chiaro e cioè che l’apprendimento è permanente, che ha bisogno del nido per arrivare all’università ed oltre. Quando dico nido e università non penso alle istituzioni, penso a tappe della vita. Penso che darsi come obiettivo di giungere al 33% di bambini che frequentino l’asilo nido, anche se target europeo, equivale comunque ad accettare ancora per molti anni che nel nostro paese solo il 29% dei giovani tra i 25 e i 34 anni sia in possesso del diploma di laurea. La società dell’educazione permanente è la società del cento per cento.
Uscire dall’idea dell’istruzione come servizio sociale, acquisire un concetto maturo, universale, radicale di diritto allo studio, che non tollera limiti, che ha origine alla nascita come il respirare, il nutrirsi e l’essere accuditi. La società della conoscenza dell’Europa di Lisbona del 2000 ha introdotto l’apprendimento per tutta la vita, non certo nell’ottica mercatistica di recuperare nuove competenze al lavoro, ma con l’dea di rompere con il concetto dell’ istruzione istituzionalizzata, statica, ingessata, unidirezionale dalle scuole alle università.
Nella società del capitale umano l’apprendimento inizia con la nascita e dura per tutta la vita, i luoghi di studio e di sapere sono luoghi aperti, di relazione permanente con il territorio e la vita delle persone, non conoscono chiusure, luoghi di flessibilità e non di rigidità, luoghi di accompagnamento e non di mortificazione, luoghi di valorizzazione e di condivisione, luoghi non di giudizio ma di comprensione, luoghi di crescita insieme, costante continua, luoghi di accudimento dei saperi. Luoghi in cui non ci si dispera se si apprende a distanza perché la qualità degli apprendimenti e delle relazioni non ne risentono essendo luoghi dove l’apprendimento è organizzato e diffuso ovunque, dove le città che apprendono, che affondano le loro radici nel sapere diffuso, nella cultura e creatività dei loro abitanti sono considerate luoghi normali di vita e di costume.
Se i miliardi del Recovery Fund li spenderemo mantenendo i paradigmi del ‘900 saranno soldi buttati via, spesi per inutili cattedrali nel deserto.
Insegnamento e apprendimento sono state le parole chiave della seconda metà del novecento per impossessarsi attraverso discipline e curricoli del patrimonio di conoscenze già accumulato. Ora la parola chiave è l’apprendimento permanente, la società della conoscenza dove tutto deve essere al servizio di ciascuno per essere in grado di apprendere ciò che ancora non conosciamo, non ciò che ci sta alle spalle, ma ciò che ci sta davanti e ancora non vediamo. Dobbiamo immagazzinare il nuovo e saperlo andare a scoprire là dove si rintana, abbiamo bisogno degli attrezzi cognitivi per fare questo. Questo non è un compito da comunità educanti, ma è il compito di società che nelle loro politiche e in ogni aspetto della loro organizzazione sono strutturate per dare centralità alla formazione, alla conoscenza, alla cultura necessaria a nutrire il capitale umano, l’unica vera risorsa di cui possa disporre oggi l’intera umanità. Società della conoscenza dove scuole e istituzioni culturali sono parte di una rete di apprendimento permanente che ne costituisce il tessuto connettivo.
Se sarà questa la cultura e la consapevolezza con cui affronteremo le mission per il “Potenziamento dei servizi di istruzione: dagli asili nido alle università” del PNRR, potremo sperare di far entrare il nostro sistema formativo a pieno titolo nella società della conoscenza, nell’epoca della conoscenza del ventunesimo secolo. Ma l’interrogativo con quale cultura resta aperto, con molte ombre e preoccupazioni, perché ciò che non è stato curato finora è proprio la cultura e il tempo per recuperare il tempo perduto potrebbe essere scaduto.