Un tagliando per l’autonomia scolastica

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Stefaneldi Pietro Calascibetta

E’ recente la pubblicazione di un «Manifesto per la nuova Scuola» firmato da noti intellettuali italiani e da alcuni docenti.
Si tratta dell’ennesima chiamata a raccolta di quella fetta di opinione pubblica da sempre contraria per scelta ideologica all’autonomia e alle riforme che hanno ridisegnato negli ultimi venti anni l’assetto dell’istruzione pubblica in Italia.
La novità è che questo documento, approfittando dell’attuale contesto, cerca di intercettare il disorientamento del momento di alcuni settori della popolazione e di parte dello stesso corpo docente per trovare nuovi follower per sostenere il superamento dell’autonomia e delle «disastrose riforme».

UN NUOVO CONTESTO PER UNA VECCHIA QUERELLE

Ci sono tre nuove opportunità da non sottovalutare che si sono aperte per i firmatari del «Manifesto».
La prima sul piano psicologico. Dopo la pandemia siamo in presenza di un’opinione pubblica desiderosa di voltare pagina su tutto con lo slogan “Tutto non sarà come prima”, che altro non è che una formula magica per far apparire come “nuova” qualsiasi cosa, basta che possa sostituire l’esistente, nel nostro caso anche la scuola gentiliana pare essere una novità al posto dell’autonomia.


La seconda opportunità è sul piano ideologico. La crisi economica e le contraddizioni nella globalizzazione che si sono aperte con la pandemia alimentano la discussione sul fallimento del modello neoliberista. Un’occasione troppo ghiotta per non considerare fallita anche un’autonomia scolastica bollata fin da subito come adesione proprio al modello neoliberista.
La terza opportunità è data dall’inquietudine già da tempo presente nella società e ingigantita dalle polemiche di due anni di DaD per una scuola che non riesce, nonostante le riforme, a raggiungere in tutto il Paese gli obiettivi che si era proposti riguardo al successo scolastico soprattutto delle fasce deboli (vedi la dispersione,  gli scarsi risultati a livello di apprendimenti di base, il divario tra Nord e Sud).

RICORDARE FA BENE ALLA VERITA’

Non è il caso di fare qui una difesa d’ufficio dell’autonomia, ma alcune cose vanno dette, forse per rispetto di quelle migliaia di docenti, dirigenti e genitori che hanno creduto e credono ancora nell’autonomia, hanno  sperimentato le sue potenzialità e ora di fatto vengono accusati di essere complici  della “Spectre dei poteri forti”.
L’autonomia scolastica è nata con il dichiarato intento di conciliare il dettato costituzionale alle esigenze didattiche ed organizzative poste da una scuola ormai diventata di massa.
L’istituzione della scuola media unica nel 1962 non è stata una riforma qualsiasi, è stata di fatto un cambiamento di sistema. Questo è un passaggio fondamentale per capire l’autonomia e la pretestuosità delle obiezioni che le vengono mosse.  La secondaria di primo grado non poteva essere né un ginnasio come vorrebbero gli adoratori della conoscenza pura, né un avviamento sia sul piano didattico che organizzativo, di conseguenza anche la secondaria di secondo grado non poteva essere la stessa di prima, ma anche la scuola elementare doveva tener conto che i propri alunni non avrebbero più dovuto scegliere tra avviamento e ginnasio.
Dal 1962 si è avviata una fase di ricerca di una nuova forma scuola per il sistema scolastico che alla fine ha preso la forma dell’autonomia. Il superamento della scuola gentiliana non è stata una scelta ideologica calata dall’alto e pensata a tavolino, scritta da infiltrati della Confindustria al ministero, ma una scelta pedagogica che  tra l’altro raccoglieva pratiche diffuse.

Non a caso l’autonomia con le riforme successive ha le sue radici profonde nell’esperienza della scuola attiva e nella sperimentazione diffusa degli anni ’70 e ’80 che ha addirittura cercato di far diventare ordinamento, come ben testimonia l’art. 6 del Regolamento che ne mutua il metodo per tutti.
Si trattava di una scuola militante che aveva come punti di forza: la progettualità; la flessibilità didattico-strutturale; la cooperazione tra i docenti; il lavoro collegiale come contesto di crescita professionale; i convegni, i workshop e le letture per rispondere ai problemi incontrati nel lavoro quotidiano con gli studenti e non come adempimento e infine un rapporto di collaborazione autentica con le famiglie e i territori intesi come risorse culturali da cui attingere conoscenze ed esperienze reali e non come vincolo per piegare il curricolo ad intrusioni  estranee alla formazione.

Una scuola di prossimità per permettere a ciascun istituto di sintonizzarsi con I propri allievi e con quel «ecosistema formativo» descritto chiaramente ora grazie alle  “Linee guida 0-6” che caratterizza una scuola di massa dove per la formazione di un cittadino colto diventa fondamentale l’educazione accanto all’istruzione.
Un impianto pedagogico che ha come riferimento teorico ben altre figure rispetto agli economisti neoliberisti e ben altre motivazioni rispetto a quella di attivare uno pseudo mercato degli iscritti (a che pro?). Difficile spiegare ai guardiani dell’ortodossia la differenza  tra libertà come profitto  capitalistico  e libertà  come empowerment.

Chiunque abbia esperienza di quegli anni può testimoniarlo. Tutto questo per dire che non mi sono mai sentito nei miei anni di lavoro nella scuola della sperimentazione prima e poi dell’autonomia, un avanguardista del neoliberalismo per aver applicato la normativa dell’autonomia! Mi dispiace per i guardiani dell’ortodossia, ma non abiuro un modello formativo che ha molto in comune con quello dei Convitti della Rinascita fondati dai partigiani alla fine della guerra per contribuire alla ricostruzione del Paese.

DALLE QUESTIONI DI PRINCIPIO ALLA RACCOLTA DEL DISAGIO DEI DOCENTI

Non ci sono dubbi che quella del «Manifesto» sia l’espressione di una posizione politica vera e propria di chi si sente garante (un ruolo  tanto di moda oggi!) di una presunta ortodossia e non invece di una critica costruttiva per migliorare una legge esistente che va pur applicata, basta vedere il linguaggio utilizzato e la forma di proclama che assume il testo nel suo insieme.
Il «Manifesto» ha dunque il solito obiettivo di rilanciare  la proposta di fare tabula rasa dall’autonomia e delle «disastrose riforme» che ovviamente per i firmatari non sono “politicamente corrette”, fin qui nulla di nuovo, questa volta però strizzando l’occhio ai docenti.

Questo è l’aspetto che a mio avviso è più rilevante perché cerca di attribuire all’autonomia e alle riforme la causa del malessere presente oggi in diversi docenti per sostenere la tesi che vanno eliminati.
E’ una questione delicata  che va affrontata con trasparenza perché non sia strumentalizzata.
In questi venti anni   si è diffuso in ampi settori del corpo docente un profondo scontento per tutti gli impegni collegiali richiesti via via dalle riforme che, nell’attuale struttura organizzativa, si riducono ad una serie di adempimenti burocratici che finiscono per saturare il già esiguo tempo a disposizione per il lavoro collettivo che avrebbe dovuto costituire un’occasione di valorizzazione delle competenze di ciascuno e di sviluppo professionale.

Un esempio tra tanti la sproporzione tra il tempo necessario per tutte le incombenze burocratiche e financo amministrative che ricadono sulla testa del tutor dell’alternanza scuola lavoro rispetto al tempo a disposizione per un lavoro individuale e collegiale con i colleghi e con il tutor aziendale di progettazione e di monitoraggio che possa permettere a tale attività di non appiattirsi sulle esigenze del partner aziendale, di essere effettivamente un’esperienza formativa che arricchisce la preparazione culturale dello studente e di non essere una forma di apprendistato mascherato.
In altre parole, serpeggia tra molti docenti, soprattutto della secondaria e dei licei, un malessere profondo che nasce dalla sensazione di un tempo sprecato e inutile in attività impiegatizie e in obblighi formali che sottraggono energia che altrimenti potrebbe essere indirizzata alla funzione docente e alla propria disciplina.
E’ vero che vi sono molti casi in cui il lavoro collegiale funziona, ma grazie al volontariato dei docenti coinvolti che trovano troppo spesso il tempo al di là dell’orario di lavoro e il misero riconoscimento economico.

Il lavoro collegiale da punto di forza dell’autonomia e delle riforme è diventato oggi il suo “ventre molle” e non a caso è proprio il lavoro collegiale che è sotto attacco in questa “nuova” versione del “Manifesto» anti-autonomia, con tutto ciò che resta della scuola attiva   che implica un’attività di progettazione comune fuori dall’aula con il territorio e le famiglie.  Una mossa astuta.
Ancora una volta non è una forzatura interpretativa di quanto scritto nel «Manifesto».
A che scopo questa enfasi per un ritorno alla centralità dell’ora di lezione «senza distrazioni» di progetti e attività trasversali. Una scuola di 60 minuti come dovrebbe essere questa cosiddetta “nuova scuola” al di là  delle motivazioni  filosofiche,  è una scuola che non ha bisogno di progettazione e di monitoraggio collettivo in itinere e quindi di tempo dedicato al lavoro tra docenti fuori dalla classe, bastano gli scrutini. E’ una scuola che riducendo all’osso l’organizzazione e il ruolo del dirigente scolastico nella regia delle attività, toglie finalmente di mezzo “l’uomo solo al comando” con “ li beli braghi bianchi”.

Un bel risparmio anche di risorse non dovendo pagare figure di sistema e altri docenti in ruoli organizzativi non più necessari. Più piccioni con una fava!
Il richiamo poi alla libertà di insegnamento è un altro tassello a favore del vecchio e tranquillizzate modo di lavorare del fu ginnasio: preparare la propria lezione a casa senza «perdite di tempo collegiali» come è espressamente scritto nero su bianco, fare lezione in aula in santa pace senza dover concordare nulla con i colleghi e non avere alcun obbligo di doversi uniformare a qualsiasi «didattichese» non solo ministeriale, ma neanche a quello elaborato e  approvato dal collegio in forza del POF,  che ovviamente si deve abolire facendo quadrare il cerchio  di quelle che sono diventate  quasi delle rivendicazioni  para-sindacali.

Messa in questo modo non è più solo una critica ideologica all’autonomia con le solite parole d’ordine che mobilitano sempre i guardiani dell’ortodossia, ma una chiamata alle armi rivolta ai docenti per “rimettere i remi in barca” approfittando del fatto che la scuola come comunità di pratiche è in difficoltà.

L’AUTONOMIA E’ UN CANTIERE ANCORA APERTO ?

Come scrive Berlinguer nella prefazione al volume «Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome» (a cura di M. Campione e E. Contu, Il Mulino 2020), l’autonomia è nata per realizzare nella scuola un contesto di lavoro capace di «produrre ricchezza intellettuale, sperimentare metodologie, di fare della partecipazione una condizione essenziale», in altre parole valorizzare chi vi lavora e gli stessi utenti, studenti e genitori  come membri della società civile e portatori anch’essi di cultura.
Altro che robotizzazione della scuola e alienazione, piuttosto una scelta strategica di empowerment delle risorse umane presenti invece di far calare dall’alto   programmi  e didattiche  queste  sì preconfezionate.

Se le premesse sono queste, bisogna però a questo punto chiedersi sinceramente perché una scuola immaginata e voluta come un laboratorio artigianale a disposizione dei docenti sia percepita a torto o a ragione proprio da molti insegnanti come una struttura tecnocratica o tendente ad esserlo che non offre motivi di gratificazione.
Sempre Berlinguer scrive «Bisogna essere chiari: è inequivocabile che questa sia ancora la fase di attuazione dell’autonomia; non si può infatti affermare che i vent’anni trascorsi […] abbiano già introdotto sufficiente autonomia nelle scuole».
Questa è un’affermazione politicamente rilevante.

Sono sotto gli occhi di tutti i non pochi ostacoli che ha subito la l’attuazione dell’autonomia soprattutto sul piano della struttura organizzativa e contrattuale chiave di volta per la sua possibile e reale attuazione, tra tagli delle risorse, fuoco amico, personalismi e cambi di governo..
Forse allora una spiegazione al malessere c’è. Se le cose stanno come scrive Berlinguer, la forma che ha assunto oggi l’autonomia non è quella che avrebbe dovuto essere. Il malessere dei docenti è reale perché lavorano in un contesto che non permette di fare quanto richiesto dalle stesse norme, è come avere il piede in una scarpa fuori misura, troppo stretta per camminare.
Questo va detto con forza e chiarezza per essere credibili nella risposta a quei docenti che credono di risolvere i problemi della scuola abolendo l’autonomia e le riforme.
L’attuazione piena dell’autonomia può diventare un obiettivo politico proprio in questo momento in cui è così forte il desiderio di cambiamento e trovano terreno fertile le vecchie polemiche ideologiche corroborate dall’uso strumentale del disagio dei docenti.

LA CRITICA COME OPPORTUNITA’ PER FINIRE L’OPERA

L’intervento dei firmatari del «Manifesto» può essere sicuramente l’occasione per coinvolgere i docenti e i cittadini dopo vent’anni in una riflessione su cosa sia realmente l’autonomia scolastica e quale sia la sua valenza nell’applicazione del dettato costituzionale (vedi il dibattito aperto da Gessetti Colorati) e  quali siano gli ostacoli che si contrappongono ad una sua  piena realizzazione,  senza nascondere le difficoltà.
Questo però non basta. E’  urgente fare il punto su dove siamo arrivati nell’attuazione dell’autonomia e delle riforme e valutare bene   ciò che manca ed è indispensabile che ci sia per il suo regolare funzionamento.
Se il cantiere dell’autonomia è ancora aperto, allora è necessario mettersi al lavoro con proposte politiche precise facendone  una questione “identitaria” come si usa dire oggi rispetto alla scelta fatta vent’anni fa.

E’ giunto il momento che chi ha a cuore le sorti dell’autonomia e crede della sua importanza per una pedagogia attivistica si faccia carico anche di ciò che non funziona e del malessere dei docenti e ne prenda atto come problema da risolvere esplicitandone in modo puntuale e trasparente i motivi e prospettando soluzioni concrete sul piano normativo e contrattuale che possano evitare, come si dice, di “dover buttare il bambino con l’acqua sporca” perché è nello status quo attuale il rischio di una deriva tecnocratica da una parte o di un reset di sistema come estrema ratio dall’altra, come vorrebbe il «Manifesto».
Per questi motivi penso che non si possa discutere di quanto afferma il «Manifesto» aprendo solo una disputa intellettuale sul piano pedagogico tra addetti ai lavori.

LIBERARE L’AUTONOMIA

Gli aspetti strutturali e organizzativi rappresentano i nodi più delicati nell’attuazione dell’autonomia e delle riforme perché la posta in gioco tocca i docenti anche come lavoratori .
L’autonomia non può attuarsi in modo efficiente ed efficace dentro una struttura organizzativa che fa riferimento al modello gentiliano di cui è prigioniera.
Questo vuol dire che per poter parlare di un’autonomia compiuta bisogna avere il personale, uno stato giuridico, un contratto, dei profili professionali per le figure di sistema che comunque l’autonomia prevede come figure chiave,  nonché una configurazione dell’orario di cattedra dei docenti  tutti funzionali alla realizzazione del progetto didattico-strutturale di ciascuna scuola.
Dall’organizzazione del lavoro dei docenti dipende la capacità della scuola autonoma di individualizzare e personalizzare i percorsi da cui dipende a sua volta il potersi fare realmente carico delle differenze sociali, culturali, cognitive degli studenti. Insomma di essere efficaci.
Si tratta di un aspetto che attiene alla professionalità e al benessere di docenti, ma anche ai risultati e al successo formativo degli studenti.
E’ inutile investire nei corsi di recupero extrascolastici creando una scuola parallela  invece di investire    nel far funzionare  la flessibilità    per permettere alle scuole   di  riorganizzare  i curricoli  disciplinari su una  metodologia attivistica  che possa  unire  progetti e curricolo in un unico percorso integrato di istruzione ed educazione  .

Anche l’appello lanciato per la scuola del futuro dall’Associazione Gessetti Colorati individua un aspetto critico nell’organizzazione del lavoro “Una buona azione d’insegnamento/ apprendimento è possibile solo in presenza di un’adeguata organizzazione del lavoro che dovrebbe essere responsabilità dei gruppi di insegnanti. Solo una nuova e miglior organizzazione può contrastare il modello tecnocratico che il documento [il Manifesto] denuncia.”

UN CONTRIBUTO CHE VIENE DALLE SPERIMENTAZIONI DIDATTICO-STRUTTURALI

Purtroppo l’organizzazione del lavoro non dipende  solo dalla buona volontà dei docenti, ma dai vincoli normativi e contrattuali.
Sulla base dell’esperienza di sperimentazione didattico-strutturale avuta nella mia carriera scolastica, gli ambiti su cui porre l’attenzione che hanno un’influenza sull’efficienza e l’efficacia della scuola dell’autonomia possono essere i seguenti.

  • Un organico funzionale al progetto come era espressamente previsto in origine dalla stessa normativa applicativa. In altre parole un organico con più docenti di quelli necessari alla lezione frontale individuati come numero e classi di concorso in base al progetto di ciascuna scuola ovviamente entro un range    L’organico funzionale doveva accompagnare l’attuazione della riforma, ma dopo un anno di sperimentazione è rimasto lettera morta fino alla “Buona Scuola” che lo ha introdotto timidamente in modo residuale rispetto alla disponibilità di docenti nelle graduatorie e per attività di potenziamento e non per il curricolo disciplinare vero e proprio a cui doveva essere destinato. Sull’importanza e le vicende dell’organico funzionale rimando ad un mio contributo in RIVISTA DELL’ISTRUZIONE n.4 del 2020 dal titolo “Autonomia scolastica e organico funzionale. Un matrimonio che s’ha da fare!”
  • Un tempo scuola per poter avere a disposizione un monte ore adeguato come risorsa disponibile per una scuola attiva, in altre parole un tempo pieno non solo nella primaria, ma anche nella secondaria di primo grado e nel biennio della secondaria di secondo grado. Un tempo pieno non solo e non tanto come misura di welfare, ma come tempo scuola necessario e riconosciuto per una didattica attiva.
  • Un’articolazione del monte ore di cattedra e un’organizzazione del lavoro che permetta ai docenti di operare realmente come comunità professionali. In altre parole:
  • non avere in ordinamento docenti con 6 o 9 classi che di fatto sono docenti “di serie B” non potendo materialmente fare parte realmente di nessuna équipe inficiando lo stesso concetto di comunità professionale e creando di per sé malumore e frustrazione. Le ore di cattedra in più potrebbero costituire un monte ore per la flessibilità dei curricoli attraverso  il lavoro   con gli studenti.
  • Poter utilizzare parte dell’orario di cattedra  per le  attività collegiali  soprattutto quelle di équipe previste dalle stesse riforme come la progettazione di classe  e avere così    un numero certo di ore a disposizione settimanali o quindicinali per progettare, individualizzare, personalizzare, monitorare in itinere e valutare i curricoli.

Sull’importanza e la funzione del consiglio di classe come motore dell’autonomia e centro della comunità professionale rimando ad un mio contributo in RIVISTA DELL’ISTRUZIONE n.1 del 2021 dal titolo “Il coordinatore di classe: una figura chiave”

  • Avere un vero e proprio organico in ogni istituto di figure di sistema individuate nella tipologia a livello nazionale come fondamentali e riconosciute come tali nel loro ruolo.  Fare in modo che i  possano scegliere di mettersi a disposizione per questi incarichi  arricchendo  la propria formazione specificatamente per svolgere compiti di project leader dei consigli di classe e dei dipartimenti o di referenti organizzativi   con adeguati distacchi dall’insegnamento e un riconoscimento contrattuale specifico, una modalità già praticata per i docenti distaccati all’università.

Questo può permettere finalmente agli altri colleghi di poter svolgere in modo efficace il proprio lavoro di docenti in aula, E’ una scelta  organizzativa  per lasciare a chi vuole solo insegnare la possibilità di farlo senza dover essere obbligato dalle circostanze in ruoli di sistema mal sopportati e per i quali non si ha il minimo interesse e attitudine. Questa specializzazione nell’ambito del ruolo docente non necessariamente deve essere collegato alla progressione di carriera che potrebbe trovare anche  altri canali e  modalità per attuarsi.
Sull’importanza e la funzione delle figure di sistema per il funzionamento di una vera comunità professionale, oltre all’intervento di cui sopra sul coordinatore di classe, rimando ad un mio contributo in NUOVO PAVONERISORSE 26 maggio 2021 dal titolo “Figure di sistema: questa volta partiamo dal problema

La verità è che la qualità della scuola dipende non solo dalla innovazione didattica messa in atto dal singolo docente, ma anche dalla forma  che  assume    la struttura e l’organizzazione  in base ai vincoli  in cui è costretta. L’innovazione organizzativa  proposta dall’autonomia e dalle riforme  ha bisogno di risorse, non si può fare  “con i fichi secchi”.

Un’autonomia senza oneri per lo Stato rimarrà purtroppo incompiuta.