I lunghi mesi della pandemia hanno accentuato le disuguaglianze nella società e di conseguenza anche nella scuola, dove già erano forti per la diversità di non pochi fattori contestuali, per le diverse condizioni di ogni singola scuola, non derivanti soltanto da carenze materiali e strumentali, per la diversità delle condizioni familiari di ogni singolo alunno.
L’impegno straordinario delle scuole, non adeguatamente apprezzato come sarebbe stato giusto, ha impedito che ci si trovasse oggi di fronte ad un vero disastro educativo; ci si trova, comunque, davanti a seri problemi, perché solo in parte si sono potuti arginare i danni provocati dalla chiusura delle scuole.
Con le antiche fratture e con quelle nuove, però, col miglioramento della situazione epidemiologica bisogna fare i conti; tra quest’ultime e che bisogna curare si colloca la lacerazione dei rapporti sociali tra gli stessi studenti, tra gli studenti e la scuola, messi in crisi dai necessari provvedimenti per tutelare la loro salute e quella del personale della scuola.
In quest’opera necessaria di ricomposizione di ogni singola comunità scolastica non si può dimenticare che diverso è stato il peso che ha dovuto sostenere ogni alunno o per mancanza di strumenti e di spazio o per la presenza in famiglia di morti e di malati o per familiari allontanati dal lavoro o impediti nelle proprie attività.
Una risposta a questi problemi bisognava darla e tentarla. Si possono legittimamente nutrire tutti i dubbi di questo mondo sulla qualità e pertinenza delle iniziative proposte dal Ministero, ma non si poteva restare inerti.
Il piano straordinario di interventi tesi ALL’AMPLIAMENTO DELL’OFFERTA FORMATIVA vuole ispirarsi al modello di “scuola inclusiva” e trova fondamento nell’art. 31, comma 6, del D. L n. 41 del 22 Marzo 2021 e nel DM n48 del 2 marzo; è stato ulteriormente definito con la nota n. 643 del 27 aprile e con il decreto dipartimentale n. 39 del mese di Maggio.
L’intenzione è quella di costruire un “ponte formativo” tra ciò che è successo negli ultimi tempi e ciò che si spera di potere fare nel nuovo anno scolastico, se si sarà riusciti ad avere ragione della pandemia.
Il ponte formativo non dovrebbe essere costituito con i soli mattoni del recupero delle competenze di base e col consolidamento delle discipline, ma anche e forse soprattutto con la promozione del “recupero della socialità, della proattività, della vita di gruppo delle studentesse e degli studenti”. Scompaiono dall’orizzonte il Piano Integrazione degli Apprendimenti e il Piano di Apprendimento Individualizzato dell’anno passato, calibrati sul piano cognitivo e senza altra ambizione formativa se non quella di rimettere in sesto il patrimonio di conoscenze e di competenze di ogni singola classe e di ogni singolo alunno.
E’ una scelta giusta?
Oggi, nei nuovi provvedimenti si può individuare un netto spostamento di attenzione verso il recupero di socialità, di cui sarebbero stati privati i ragazzi e i giovani, anche se in questo specifico compito il mestiere della scuola è un po’ improvvisato. Nella nota 643 del 27 Aprile 2021 vien detto, infatti, che “le modalità più opportune per realizzare “il ponte formativo” sono quelle che favoriranno la restituzione agli studenti di quello che più è mancato in questo periodo: lo studio di gruppo, il lavoro in comunità, le uscite sul territorio, l’educazione fisica e lo sport, le esperienze accompagnate di esercizio dell’autonomia personale. In altri termini, attività laboratoriali utili al rinforzo e allo sviluppo degli apprendimenti, per classi o gruppi di pari livello”.
Se con il Piano Integrazione degli Apprendimenti e il Piano Individualizzato di Apprendimento ci si trovava nel consolidato terreno della scuola che istruisce, dissodato, arato e seminato con il consueto lavoro dei docenti, con il Ponte Formativo si pretende di più e qualcosa di diverso.
La scuola, per assolvere questo arduo compito educativo, recita la suddetta nota, ha necessità di modalità scolari innovative, di “sguardi plurimi”, di apporti differenziati. Occorre una scuola aperta, dischiusa al mondo esterno.
Aprire la scuola significa aprire le classi ai gruppi di apprendimento; aprirsi all’incontro con “altri mondi” del lavoro, delle professioni, del volontariato; come pure aprirsi all’ambiente; radicarsi nel territorio; realizzare esperienze innovative, attività laboratoriali.
Si tratta di moltiplicare gli spazi, i luoghi, i tempi, le circostanze di apprendimento, dentro e fuori la scuola”.
Gli sguardi plurimi e gli apporti differenziati evocano i contributi del mondo esterno alla scuola e di questi non si dovrebbe/potrebbe fare a meno, se il lavoro che sa fare la scuola non è considerato sufficiente per costruire il nuovo ponte formativo… Ci si deve chiedere allora se a questo vasto programma di interventi, che con i PON si prolungano fino nel 2022, non sia sottesa l’ipotesi che i danni della socialità siano più gravi delle smagliature nel possesso dei saperi e delle conoscenze e anche l’altra che forse oltre alla pandemia sia stata la mancanza di questi sguardi e di questi apporti ad avere creato le condizioni per l’insuccesso di tanti alunni.
Dubbi e perplessità legittimi.
Tutti i provvedimenti presi a partire dal mese di marzo dicono con inconsueta chiarezza che la missione del momento per la scuola è quella di DARE DI PIU’ e di DIVERSO.
DI PIU’ a chi ha ed ha avuto di meno e forse di DIVERSO a tutti . L’obiettivo generale che si propongono è quello di contrastare la povertà e l’emergenza educativa; ma ce ne è anche uno particolare, ma di assoluto rilievo, che è quello “di contrastare l’emergere di una nuova questione meridionale, segnata da un maggiore rischio di dispersione educativa”(art. 4 decreto dipartimentale del 14/5/2021).
Per quest’ultimo, però, ci vorrebbe qualcosa di più di tutte le risorse predisposte ai sensi dell’art. 31 del DL n. 41 del 22 marzo 2021 e dei 40 milioni messi a disposizione col DM. 48 del 2 marzo 2021.
Dare a scuola di più a chi ha di meno è da sempre lotta contro le disuguaglianze.
Ma non è una questione che riguarda solo singole persone, ma come si sa e come si individua dall’insieme dei provvedimenti presi dal governo, è anche una questione di intere comunità e di interi territori.
Ragione per cui, pur interagendo le due questioni, si dovrebbe distinguere in questa lotta ciò che manca alla singola persona e ciò che manca ad una comunità, per distinguere ciò che deve essere fatto per le persone, da ciò che va fatto per i singoli territori.
E allora a che cosa ci si riferisce quando si parla di ciò che manca o di ciò che non è sufficiente?
Mancano davvero gli sguardi plurimi e i rapporti col mondo esterno?
Ci si riferisce forse e anche alle risorse, culturali, materiali e finanziarie di cui dispongono alunni e territori?
Alla mancanza di sostegno individuale per gli alunni in difficoltà? All’assenza di attenzioni per i ragazzi disagiati?
Alla modestia dell’interesse per apprendere?
Alla povertà del patrimonio linguistico, strumentale e cognitivo di tanti alunni?
Alla qualità degli istituti?
Alla qualità degli insegnanti?
Sono tutti problemi di un certo rilievo e non tutti si risolvono con la restaurazione della socialità infranta degli alunni, perché ognuno di essi richiede specifico lavoro e se risolti aiuteranno con molta probabilità a sanare le fratture che nel seno della società e della scuola si solo allargate negli ultimi due anni.
L’ identificazione esatta di ciò che manca agli alunni e ad una comunità è condizione per trovare in modo realistico e razionale le soluzioni e per rimuovere gli ostacoli che impediscono ad ogni ragazzo, che varca le soglie di un istituto scolastico, di raggiungere le mete che gli sono congrue e proprie e di essere alla pari di tutti gli altri. Lo dice anche la Costituzione.
Credo che l’apertura culturale e pedagogica dei provvedimenti e delle misure prospettate sia sostenuta da una individuazione generica e debole dei problemi da risolvere. Si parla di rinforzo e potenziamento delle competenze disciplinari e “RELAZIONALI” (mese di giugno); di rinforzamento e potenziamento delle competenze disciplinari e della “SOCIALITA’” (mesi di luglio e agosto) e addirittura di RIQUALIFICAZIONE e ABBELLIMENTO degli edifici scolastici (mese di settembre?), accompagnati, però, da interventi per studenti stranieri, da iniziative di accoglienza, da sportelli ad hoc per bisogni educativi speciali.
Tanta generosità, ma anche tanta indeterminatezza.
C’è un investimento di risorse e di energie sulla periferia dei processi di apprendimento (animazione socio-educativa, artistica, ambientale e sportiva) e una rituale citazione dei problemi di apprendimento.
Ci voleva e ci vuole più innovazione pedagogica, più aiuto personalizzato, più senso da dare alla scuola e ai saperi e si è scelto la via di fare un po’ o tanto di più; appunto in quantità, ma non in qualità.
La prima e indiscutibile funzione della scuola è quella conoscitiva; il primo compito della scuola è dare a tutti gli alunni le conoscenze e i saperi, che usciti fuori sono indispensabili per essere in grado di inserirsi nel mondo del lavoro e per partecipare da cittadino alle vicende della propria comunità, se ne ha voglia: è su questo piano che si disegna il compito di dare ciò che manca e con tutta evidenza questo compito è una responsabilità imprescindibile della scuola in qualsiasi tempo e soprattutto nei giorni post-pandemici. Occorre tracciare lo spazio tra ciò che si deve fare e ciò che manca e cercare di colmarlo, essendo chiaro che può trattarsi anche di una differenza tra ciò che è la scuola e ciò che è l’alunno che ha bisogno di più. Una differenza che può essere attenuata o cancellata, modificando le caratteristiche dell’essere e del fare scuola. Alla scuola compete prendere in carico le differenze tra sé e la propria popolazione e vedere quali sono quelle che con strumenti propri può/deve eliminare.