Esiste una distanza, temo a questo punto incolmabile, tra il Recovery Plan (o Next Generation Eu o Piano Nazionale di Ripartenza e Resilienza) e la scuola italiana. Il primo elemento di distanza lo si vede dalla totale assenza di uomini di scuola nei luoghi in cui il piano è stato elaborato. Se, infatti, tra i consulenti e gli esperti pullulano i docenti universitari, il mondo della scuola manca totalmente.
Già si è visto, però, in passato, che l’Università non è riuscita a leggere il mutamento e il futuro, perché è un mondo troppo preso dalla sua autoreferenzialità: infatti i docenti universitari diventati ministri dell’Istruzione negli ultimi dieci anni non hanno lasciato grandi ricordi di sé. Tutto questo sta avvenendo perché le scuole, benché dotate di un’autonomia funzionale di rango costituzionale, non sono state dotate di alcuna rappresentanza e gli uffici scolastici regionali (uffici del ministero non del territorio e infatti qualcuno vorrebbe regionalizzarli) sono sempre più lontani dalla realtà delle scuole e dentro a meccanismi ministeriali spesso frutto di un’idea molto vecchia di sistema dell’istruzione (graduatorie, gestione PON e PNSD, trasferimenti, concorsi, ecc.).
Si è poi ritenuto che manager che vengono dalla city londinese o soggetti che hanno un passato industriale e tecnocratico o che avessero un raccordo col terzo settore, fossero i soggetti migliori per progettare il nostro futuro. Ed è evidente che questi soggetti non hanno alcun reale interesse per il mondo della scuola, che non considerano centrale per lo sviluppo dell’Italia. D’altronde in questo momento chi comprende meglio i processi pedagogici, educativi, gestionali e organizzativi delle scuole sono i dirigenti scolastici, ma quando sì è voluto qualcuno a gestire le varie ripartenze si sono chiamati al tavolo i prefetti e non loro.
Anche in questo caso manca la rappresentanza delle scuole, anche perché una rappresentanza delle scuole dovrebbe passare dal loro legale rappresentante e questo è un oggettivo ostacolo, perché il sistema preferisce il dirigente-burocrate al dirigente-leader educativo o soggetto competente di governace.
Ci sono tre grandi errori nella lettura della scuola e questi errori li ha compiuti il Governo Conte e li sta compiendo il Governo Draghi. Ma li compiono anche l’opinione pubblica, il mondo politico, il sistema degli esperti e dei tecnocrati, i mezzi di comunicazione. Sono macro errori di lettura che condizionano poi tutti gli atti successivi. I tre errori sono così riassumibili:
- Ritenere che il patrimonio edilizio sia sufficiente e soddisfacente alle esigenze della scuola italiana e vada solo messo in sicurezza e gestito con una buona manutenzione.
- Ritenere che il personale scolastico sia amministrativo sia didattico abbia solo bisogno di un po’ di formazione per gestire un sistema in grado di dare le risposte alle nuove generazioni.
- Ritenere che il sistema pedagogico di supporto ai programmi/curricoli e all’organizzazione oraria e temporale debba essere sostenuto, ma che comunque sia in grado di rispondere alle esigenze della società della conoscenza.
Questi tre errori (colossali) condizionano le scelte e fanno arrivare briciole confuse al sistema dell’istruzione. Vediamo in sintesi perché sono errori (colossali) e come potrebbero essere emendati.
- Ritenere che il patrimonio edilizio sia sufficiente e soddisfacente alle esigenze della scuola italiana e vada solo messo in sicurezza e gestito con una buona manutenzione. L’idea diffusa è che gli enti locali abbiano gestito bene il territorio, scuole incluse. Così non è: su 44.500 punti di erogazione di servizio (scuole) raggruppate in circa 8.000 istituti una vera politica scolastica innovativa, resiliente, ecosostenibile, tecnologicamente all’avanguardia ne abbatterebbe almeno 35.000 e le rifarebbe nuove. Le scuole hanno spazi ristretti e avrebbero bisogno di open space, hanno palestre e laboratori non sufficienti, hanno tecnologie obsolete, aule piccole, aule magne che sono solo stanzoni, corridoi grandi e inutili: sono il frutto dell’idea di scuola di 100 anni fa. Ingenuamente avevo ritenuto che almeno 30/40 miliardi del Recovery Plan sarebbero andati all’edilizia scolastica.
Ma le Regioni non hanno proposto nulla del genere e non hanno voluto ascoltare le scuole. E nulla del genere sta pensando lo Stato, che della voce delle scuole non sa che farsene. Non si tratta di diminuire il numero di alunni per classe, ma di avere spazi che contengano la laborialità e siano di supporto alle nuove esigenze didattiche ed educative. Basta andare all’estero e queste scuole le si vedono, ma noi ci siamo convinti che il patrimonio edilizio scolastico vada bene così, basta garantire la sicurezza e mettere alcuni pannelli solari sul tetto. L’idea che la società della conoscenza chieda altri spazi e altre attrezzature non sfiora nessuno, mentre è la prima esigenza del mondo della scuola. E gli enti locali, pessimi gestori delle esigenze scolastiche, vogliono solo difendere il proprio operato davanti agli elettori continuando a progettare scuole vecchie e legate al sapere trasmissivo. E’ vero che, soprattutto al nord, cambiano le lampadine bruciate e aggiustano i vetri rotti in fretta, ma purtroppo una lampadina funzionante non ha mai prodotto apprendimento. - Ritenere che il personale scolastico sia amministrativo sia didattico abbia solo bisogno di un po’ di formazione per gestire un sistema in grado di dare le risposte alle nuove generazioni. Le modalità per l’assunzione del personale della scuola mostrano che non si ritiene prioritaria la competenza reale e pertanto si prevedono sanatorie del precariato, tagliando fuori i giovani e i neo laureati. Inoltre le segreterie subiscono un travaso costante di collaboratori scolastici (bidelli) nei ruoli amministrativi, senza che nessuno ne abbia mai accertato una minima competenza.
Questa idea che la scuola possa essere un ufficio di collocamento intellettuale senza verifica d’accesso di competenze è uno sbaglio che qualunque dirigente scolastico può segnalare: ovviamente se nessuno vuole ascoltarlo non lo può segnalare se non a se stesso e ai suoi pari. Si sono cancellate le SSIS, non si vogliono fare veri e costanti concorsi ordinari aperti, si è gettata la proposta contenuta nella legge 107 di un periodo di prova triennale.
Così passa l’idea che un po’ di formazione può costruire le competenze che non si hanno e che le segreterie scolastiche non sono così importanti. Basterebbe fare un’analisi di quanti fondi PON non sono stati spesi dalle scuole perché le segreterie si sono rifiutate di collaborare per avere un bel quadro d’assieme. Tutto questo unito alla debolezza del settore amministrativo e tecnico degli enti locali mostra un sistema su cui intervenire con forza prima e non dopo aver fatto arrivare i soldi. E se ne arrivano tanti bisogna che chi li riceve sia in grado di spenderli. D’altronde in Italia tutti lodano gli enti locali ma nessuno chiede loro conto del perché i fondi comunitari non vengono spesi. - Ritenere che il sistema pedagogico di supporto dei programmi/curricoli e dell’organizzazione oraria e temporale debba essere sostenuto, ma sia comunque in grado di rispondere alle esigenze della società della conoscenza. Anche in questo caso le esigenze delle nuove generazioni non possono ricevere risposte da un sistema ingessato come quello attuale. E’ necessario slegare il sapere scolastico dai libri di testo, eliminare forme obsolete di verifica degli apprendimenti (compiti e interrogazioni), cancellare il meccanismo dell’istruzione condizionato dall’orario settimanale dei docenti. Bisogna legare il lavoro dei docenti agli obiettivi di formazione degli studenti da raggiungere.
Commentatori intelligenti come Cassese, Giavazzi, Rizzo e Boeri pensano che l’aumento della produttività a scuola coincida con l’aumento dell’orario dei docenti, senza avere alcun interesse per cosa quei docenti insegnano in quegli orari. Abbiamo il tempo scuola più lungo del mondo e i risultati tra i più bassi e nessuno mette in relazione le due cose. Serve un ruolo docente che lavori per monte ore annuale e obiettivi e cancelli la vergogna italiana dei NEET, cioè di quei due milioni di giovani dai 17 ai 25 anni che non studiano e non lavorano, ma che sono passati tutti dall’ingessato sistema dell’istruzione.
Purtroppo i tre errori sopra esposti col loro triste seguito di progetti sbagliati richiederebbe che la scuola fosse interrogata e che avesse qualcuno che la rappresentasse al tavolo del Recovery Plan. Ma non vedo tavoli aperti per noi in cui dire come stanno le cose. E così ci si illude di portare banda larga e nuovi orizzonti a chi è entrato nel sistema con sanatorie e senza progetti. Io in questi mesi ho sentito parlare di ITS, di rientro al 50%, 70%, 75%, 100%, di tracciamenti, di trasporti, di attività estive da progettare con il terzo settore, ma di pedagogia e apprendimento molto poco. Credo che ai manager della city, ai tecnocrati e agli esperti queste sembrino cose che si superano con qualche lettura.