L’avvelenata scolastica. Ballata per trombone e ocarina
Facciamola finita, venite tutti avanti nuovi protagonisti, politici rampanti,
venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false
che avete spesso fatto del qualunquismo un’arte, coraggio liberisti, buttate giù le carte
tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto, assurdo bel paese.
(F. Guccini, Cirano)
Avvertenza per il lettore: questo intervento è fazioso, politicamente scorretto e a tratti irriverente. Il titolo richiama esplicitamente L’avvelenata di Guccini, anche se i contenuti, almeno in parte, sono più affini al suo Cirano. Si può decidere di chiuderla qui e non andare oltre nella lettura. Nessun problema, ma vi precludete la possibilità di sapere chi sia il trombone e chi l’ocarina…
In questi giorni abbiamo sentito molti personaggi pubblici, commentatori e soprattutto uomini politici indignarsi per le condizioni in cui versa la scuola italiana. E in effetti la vicenda del coronavirus ha portato alla ribalta una situazione tutt’altro che rosea (leggasi vergognosa) della scuola, sia sul piano delle strutture che su quello del livello di qualità della didattica.
Riguardo al primo punto si è scoperto (udite, udite!) che le scuole non hanno spazi sufficienti per fare lavori di gruppo (e infatti la pratica del lavoro di gruppo nella scuola italiana è tanto diffusa quanto la polidattilia tra la popolazione) e dunque le istituzioni scolastiche si sono trovate in gravi difficoltà ad organizzare il servizio scolastico durante la pandemia. Ricorderete che recentemente si è parlato di utilizzare altri spazi pubblici come aule scolastiche (musei, teatri, giardini pubblici ecc.), ma per far svolgere le ultime elezioni amministrative del 20-21 settembre 2020 si è fatto ricorso, come sempre, ai locali scolastici. Troppo impegnativo trovare soluzioni alternative e poi un giorno in più o in meno di scuola non cambia molto (leggasi chi se ne frega della scuola).
È emerso un altro dato incredibile per la scuola italiana: esistono ancora le cosiddette classi pollaio! E questo elemento ha fatto gridare allo scandalo ai nostri preoccupati osservatori, in quanto i requisiti del distanziamento sociale, richiesti dalle misure preventive contro il coronavirus, non possono essere rispettati se vi è un numero eccessivo di alunni per classe. Eppure è da anni che dirigenti scolastici e docenti denunciano questa situazione Addirittura in piena pandemia sono state costituite classi con più di 30 alunni in non poche scuole superiori.
Ma è l’insieme del patrimonio edilizio scolastico e delle relative infrastrutture che hanno mostrato non poche défaillance (leggasi problemi indecenti), peraltro noti da tempo agli addetti ai lavori: edifici squallidi e inadeguati a svolgere un’attività didattica inclusiva e attrattiva; infrastrutture tecnologiche inadatte; rete telematica inefficiente e sottodimensionata a reggere il flusso di dati mobilitato dalla didattica a distanza. A ciò si aggiunga una scarsa dotazione informatica da parte di molte famiglie e una preparazione dei docenti non sempre in grado di utilizzare al meglio la didattica a distanza. Tutti problemi noti da tempo, ma i soloni nostrani sono stati illuminati sulla via di Wuhan.
C’è da chiedersi dove fossero tutti questi personaggi (e soprattutto i politici) quando hanno consentito (o addirittura promosso) i tagli selvaggi alla scuola. Nel periodo 2011-2013 (ministra Gelmini) vi è stato un taglio di 81.120 cattedre e 44.500 Ata, ossia quei docenti e Ata reclamati oggi a gran voci dalle stesse forze politiche che con solerzia ragionieristica si sono prodigate a tagliarli all’epoca. Inutile dire che queste unità di personale in più oggi avrebbero potuto gestire in modo molto più incisivo la drammatica situazione che si è determinata. Complessivamente sono stati tagliati 125.620 posti, con un risparmio di spesa di otto miliardi di euro[1], in un Paese che già destinava meno risorse all’istruzione rispetto ad altri Paesi, come dirò tra poco.
Se poi si considera più in generale il periodo dal 2009 al 2016 (governi Berlusconi IV, Monti, Letta, Renzi) si scopre che la spesa complessiva per l’istruzione in Italia è passata dal 9,21% della spesa pubblica al 7,81%. Certo, le giustificazioni non mancano: la crisi economica del 2000 che ha investito tutto il mondo industrializzato; il particolare debito pubblico italiano che non ha eguali negli altri Paesi avanzati; però non si comprende come mai in altri Paesi, come la Germania, nello stesso periodo la spesa per l’istruzione sia passata dal 10,19% al 10,93 e in ogni caso la media europea si assesta intorno al 10%[2]. In sostanza, anche nei periodi di crisi, altri Paesi non hanno toccato le risorse destinate all’istruzione, a differenza di quanto ha fatto l’Italia.
Probabilmente le ragioni di questo disinvestimento sulla scuola e sull’istruzione sono altre e sono da ricercare in primo luogo nel considerare l’istruzione una spesa più che un investimento e ciò porta a sottovalutare la funzione propulsiva che l’istruzione può svolgere anche per lo sviluppo economico del Paese[3]. Ci si dimentica che l’Italia non ha grandi materie prime, se non il suo patrimonio archeologico, artistico, paesaggistico e culturale. Eppure anche questo patrimonio, per essere convertito in ricchezza (leggasi per attirare turisti) ha bisogno di un adeguato know how, creatività, innovazione, in una parola di istruzione e formazione. Per non parlare di altri settori produttivi in cui la cifra che contraddistingue i prodotti italiani è la qualità, ossia l’insieme di gusto, creatività, innovazione, ossia, ancora una volta, istruzione e formazione.
Ai tanti politici nostrani che oggi mostrano sbigottimento e sdegno per la situazione in cui versa la scuola italiana bisognerebbe richiedere un po’ più di ritegno, considerato che probabilmente la categoria della vergogna non fa parte del loro corredo civile e politico. Non ci spingiamo fino a dire che si tratta “di gente infame, che non sa cos’è il pudore” (F. Battiato, Povera Patria), ma qualche dubbio sorge.
Grazie ai loro interventi di tagli forsennati oggi l’Italia detiene il triste primato in Europa per quanto concerne la dispersione scolastica (13,3% a fronte di una media UE del 10%), ed è penultima in UE per quanto riguarda il tasso di giovani laureati fra i 30 e i 34 anni (27,6% contro una media UE del 40%). Solo la Romania fa peggio di noi. Altri dati non esaltanti riguardano i giovani fra i 15-29 anni che non sono occupati e non sono in formazione (i cosiddetti Neet), che in Italia costituiscono il 23,4% dei giovani di quella fascia di età a fronte di una media UE del 12,9%.
Non va poi dimenticato che ancora oggi l’Italia destina all’istruzione un punto percentuale in meno del PIL rispetto alla media UE e che il divario Nord-Sud per quanto concerne i livelli di istruzione è ancora drammaticamente elevato tanto da determinare un’Italia divisa in due. Più in generale, è facile fare una correlazione tra i bassi livelli di sviluppo dell’istruzione e la scarsa crescita economica del Paese: non è un caso che l’Italia sia cresciuta meno degli altri Paesi UE, e continua a crescere meno.
Forse va preso atto che in questo Paese i problemi della scuola non costituiscono una priorità dell’agenda politica, probabilmente perché dando un’istruzione seria al popolo si corre il rischio di emanciparlo da quel rimbambimento che la TV commerciale (e la stessa TV pubblica in un’opera di emulazione e rincorsa al ribasso) nel corso di questi decenni ha condotto con pervicacia e con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. D’altro canto, F. De Sanctis già nel 1860 notava che “un popolo ignorante non ragiona, ma ubbidisce”, e in tempi più recenti E. Che Guevara sottolineava che “un popolo ignorante è più facile da ingannare”. Queste parole possono essere contrapposte a quanto diceva qualche anno fa un famoso ministro dell’economia (Tremonti), ossia che con la cultura non si mangia. E aveva ragione, ma noi aggiungiamo: con l’ignoranza ancora meno, con l’aggravante che si è più sudditi e meno cittadini.
Passata la pandemia, se vi saranno dei risparmi da fare, come sarà inevitabile (e dunque dei tagli alla spesa pubblica), provate a indovinare quale settore verrà sicuramente toccato. Non è difficile intuirlo, anche senza sforzarsi troppo. Ma fate in fretta: sta per cominciare il programma C’è posta per te… (leggasi TV spazzatura).
[1] https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-04-17/istruzione-anni-tagli-miliardi-081609.shtml?uuid=AaEl9gPD&refresh_ce=1
[2] P. Bianchi, Nello specchio della scuola, Laterza, Roma-Bari, 2020
[3] M. Maviglia, Sopravvivere a scuola. Manuale di istruzione, Edizioni Conoscenza, Roma, 2020