La recente vicenda del DG dell’USR Marche, Marco Ugo Filisetti, ci sollecita a intervenire sul comportamento dei dirigenti pubblici.
Il DG Filisetti, in una nota indirizzata agli studenti in occasione della ricorrenza del 4 novembre, ha usato toni di esaltazione della guerra per ricordare i Caduti della Prima Guerra Mondiale, riprendendo, peraltro, un discorso tenuto da Mussolini il 23 marzo 1919 (come nota Repubblica on line) in cui il Duce diceva “L’adunata rivolge il suo primo saluto e il suo memore e reverente pensiero ai figli d’Italia che sono caduti per la grandezza della Patria…”; Filisetti nella sua nota scrive: “In questo giorno il nostro reverente pensiero va a tutti i figli d’Italia che dettero la loro vita per la Patria…”.
Al di là della vicenda in sé, su cui peraltro il MI ha avviato un approfondimento, quello che qui preme sottolineare è il ruolo che un dirigente pubblico può e deve esercitare in relazione ai compiti assegnatigli.
Ancora troppi dirigenti dimenticano che quando mettono una firma su un atto pubblico o comunque a valenza esterna (ancorché di carattere commemorativo, come nella fattispecie), non è il dirigente in quanto persona fisica a firmare l’atto, ma il rappresentante della struttura amministrativa che dirige e rappresenta. Sotto questo profilo, l’azione dirigenziale trova dei limiti nelle norme (prima fra tutte la Costituzione) che disegnano il perimetro entro cui il dirigente può agire e determinare la volontà dell’Amministrazione (non la sua volontà).
Detto ancor più esplicitamente, un dirigente può anche coltivare sentimenti da guerrafondaio o essere di fede fascista, ma nel momento in un cui ricopre un incarico pubblico, di rango addirittura dirigenziale, non può trascurare il fatto che la nostra Costituzione “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11) e vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” (XII disposizione transitoria).
Questi principi costituzionali possono non essere condivisi, nella propria sfera privata, ma le Amministrazioni pubbliche sono tenute a conformarvisi e il dirigente non può esimersi dal rispettarli, proprio perché svolge una funzione pubblica e, in quanto dirigente, determina la volontà dell’apparato burocratico che dirige. A ben vedere, questa dissonanza che talvolta si nota in alcuni dirigenti tra il loro personale orientamento e quello che dovrebbe essere invece l’orientamento dell’Ufficio pubblico che dirigono deriva da una concezione personalistica del potere e del bene pubblico. In altre parole, la funzione dirigenziale viene piegata ai propri fini personali, poco importa che questi siano di carattere materiale o ideologico.
In fondo, da un punto di vista meramente etico-comportamentale, tra il dirigente che ruba soldi pubblici e colui che strumentalizza in senso ideologico l’Ufficio che dirige non c’è alcuna differenza: entrambi concepiscono il servizio pubblico come una loro proprietà, un bene di cui possono disporre a piacimento. Ovviamente, questo modo di pensare è alquanto diffuso in Italia, a vari livelli, e questo spiega l’altro il grado di corruzione che caratterizza la nostra Penisola rispetto agli altri Paesi avanzati.
Il dirigente dovrebbe sempre avere ben chiari i presupposti e gli effetti degli atti che firma o intende firmare: il presupposto di fondo – lo abbiamo detto – è che l’atto o la comunicazione si collochi all’interno del perimetro giuridico tracciato dalle norme e che non debordi da tale perimetro (soprattutto per quanto riguarda gli atti di carattere discrezionale); in secondo luogo occorre sempre chiedersi quali sono gli effetti che produce un atto o una comunicazione sugli interessati. Proprio perché l’atto/comunicazione non è un prodotto intimo o personale del dirigente responsabile, ma una manifestazione di tipo istituzionale, il registro comunicativo deve necessariamente seguire le regole della comunicazione istituzionale. Non è solo questione di etichetta protocollare, ma di rispetto nei confronti dell’istituzione di cui si è a capo, istituzione che è sicuramente “casa” del dirigente, come lo è di tutti i cittadini.
Espressioni come quelle contenute nella nota citata sopra (“Per questo quello che siamo e saremo lo dobbiamo anche a Loro e per questo ricordando i loro nomi sentiamo rispondere, come nelle trincee della Grande Guerra all’appello serale del comandante: PRESENTE!”), possono andar bene in un racconto dannunziano o interventista, un po’ meno in una comunicazione di un Ufficio pubblico della Repubblica Italiana del 2020.
(En passant, si fa notare che il grido “PRESENTE!” era tipico delle camicie nere quando salutavano i camerati caduti durante i saccheggi e le devastazioni squadristiche. Se ne trova una eco nel recente romanzo di Antonio Scurati, M. L’uomo della provvidenza, “…migliaia di gagliardetti con i nomi dei caduti…Benito Mussolini si avvicina. Legge. Trasalisce. PRESENTE! PRESENTE! PRESENTE!…”, p. 624).
Ovviamente nessuno vuole coartare la creatività espressiva di un dirigente; si chiede però di tenere ben distinte le proprie aspirazioni “espressive” (ma in questo caso, più opportunamente, ideologiche) da quelle dell’istituzione, che deve essere preservata da ogni contaminazione personalistica. Se il registro comunicativo protocollare dell’istituzione viene vissuto come troppo stretto, rigido e inibente, il dirigente può dedicarsi alla scrittura letteraria, nel suo tempo libero; oppure può licenziarsi per meglio seguire la sua vena poetico-ideologica e magari fondare un movimento politico basato sul valore della guerra e della morte come aspirazione di ogni vero patriota. Ciò che non è ammissibile è il coinvolgimento dell’Ufficio in questi panegirici dal netto sapore reazionario e fascistoide.
Va comunque detto che queste manifestazioni prendono piede in quanto l’Amministrazione non assolve fino in fondo e in modo puntuale la propria funzione di controllo dei comportamenti devianti dei propri dirigenti. Anzi, l’Italia è uno dei pochi Paesi avanzati dove di solito i dirigenti non pagano per le loro colpe. In questo contesto istituzionale così labile e sfilacciato ognuno può sentirsi autorizzato ad esternare le proprie contorsioni ideologiche e mentali contando su una sicura impunità.