Ah be’, si be’… ho visto una Repubblica
Stamattina ho visitato un luogo che fino ad ora per me era stato o una mediocre trasmissione di Mediaset o una pratica tipica dei giovani statunitensi: sono infatti entrat* per la prima volta in un drive-in.
A darmi l’occasione il mio medico di base, che mi aveva segnalat* sull’apposito portale, perché stat* a contatto diretto con soggetti risultati positivi, anche se non presentavo – e tuttora non presento – sintomi.
Il covid19, da oggetto di troppo spesso grottesche dispute sui “social” e di generico timore personale, parzialmente attenuato da mascherine FFP2, igienizzanti, lavaggio delle mani e osservanza delle regole di distanziamento, era insomma diventato una componente concreta e vincolante della mia vita, biologica e affettiva.
Lo era già stato durante il lockdown, ma questa volta lo dovevo affrontare faccia a faccia.
Intorno alle 10, ho abbassato il finestrino del guidatore e effettuato il tampone: un giovane infermiere (non credo fosse un medico), bardato con tutte le protezioni necessarie, ha preso la mia tessera sanitaria, mi ha chiesto la ragione per cui ero lì, ha preparato la provetta, ha controllato la corrispondenza dei dati, mi ha fatto appoggiare il capo sul poggia-testa della mia vettura e ha prelevato un campione dalle mie narici, dicendomi che avrei avuto l’esito in settimana, dal mio curante.
Poi ha portato il mio campione sul camper messo a disposizione dall’ASL. Dietro di me altr* cittadin* seguivano la stessa procedura. E così, prima e dopo, ieri e domani e nei giorni (tutt* temiamo mesi) successivi, altre centinaia e centinaia di persone.
Nel salutare, mi si è rotta la voce (e anche adesso ho le lacrime agli occhi, confesso). Non per la retorica degli angeli e degli eroi. Ma perché avevo visto in azione la Repubblica, che si preoccupava della mia salute e contestualmente di quella pubblica, di tutt* e di ciascun*.
Perché avevo potuto apprezzare concretamente il principio di solidarietà.
E non solo per l’aspetto sanitario della faccenda, ma per l’intera connotazione dell’esperienza. Ero stat* in un territorio a sua volta istituzionalmente tutelato, con lo scopo di salvaguardare un esercizio equo dei diritti di cittadinanza e delle conseguenti responsabilità, individuali e collettive. Alle 6.40 circa del mattino, infatti, erano arrivate nella (pubblica) piazza alcune pattuglie della “polizia locale”, che hanno assicurato (e dovranno assicurare fino a chissà quando) correttezza e sicurezza della lunghissima coda, dando – penso non soltanto a me – l’impressione che anche quel pezzo del percorso fosse presidiato.
È un modello semplice da capire e da mettere in atto: “Sì, è il posto giusto; questi sono i tempi; queste le regole; stai comportandoti in modo corretto; se hai qualche necessità puoi contare su di noi; non sei sol*, non siete sol*”.
Tornando a casa, dove mi devo rinchiudere, mi è venuto in mente il personale scolastico, a cui la protagonista della mia visione mattutina chiede di svolgere lo stesso ruolo di nobile custodia negli edifici in cui è erogata l’istruzione pubblica.
E mi sono chiesto se vi sono – prima ancora delle risorse – le volontà per estendere il modello al sistema dei trasporti pubblici.
Emergenza repubblicana, infatti, vuol dire adottare procedure eccezionali per garantire il diritto all’istruzione e quello alla salute, non per comprimerli o metterli in falsa e strumentale opposizione.