Gli insegnanti sono a scuola in nome di una società che non vuole riconoscere il valore e il significato del ruolo che esercitano nei confronti delle nuove generazioni.
La loro autorevolezza, se e quando viene riconosciuta, deriva da quella della scuola e tutte e due sono necessarie per istituire fin dai primi anni di vita di una persona un rapporto di fiducia con le istituzioni; tutte e due, però, si nutrono del rispetto, delle cure, del prestigio che vengono ad essi assegnati da ogni componente della società. Alla radice dei malumori se non proprio dell’ostilità nei confronti della scuola e degli insegnanti va collocata l’impossibilità per la scuola di mantenere le promesse che nel passato l’hanno accreditata come un’istituzione fondamentale e imprescindibile per il funzionamento complessivo della società: buona e rifinita preparazione civica e professionale degli alunni, certificazioni indubitabili e insostituibili a garanzia di sicuri processi di mobilità sociale.
Il prezzo maggiore di questa divaricazione tra scuola e società lo pagano gli insegnanti, sempre e comunque, come si può constatare ancora oggi, anche se senza il loro contributo determinante si sarebbe perso l’intero anno scolastico a causa della pandemia. Poca comprensione nei confronti degli insegnanti, da troppo tempo al centro di un ostile e prevenuto dibattito, che sarebbe azzardato definire politico e culturale. Accanto ad esso si sono sviluppate, quasi come conseguenza, la percezione diffusa tra i docenti di una propria marginalità sociale e la convinzione di un’assegnazione esorbitante di responsabilità, priva di sostegni e di garanzie.
Nel passaggio da una scuola d’élite, alla quale l’insegnante era contiguo dal punto di vista sociale e culturale, ad una scuola di massa di fatto si è modificato il suo ruolo pubblico, ma non si sono modificati la sua consapevolezza e il suo approccio al compito da svolgere.
Lo smarrimento causato da questa transizione per molti di loro non si è ancora risolto in uno sbocco chiaramente definito di responsabilità e di comportamenti professionali, anche per la sua interminabile ed estenuante durata.
Anzi questo stato soggettivo di sofferenza, pubblicamente e più volte individuato da serie ricerche sociologiche, in alcuni casi si è accompagnato a processi di dequalificazione professionale ed è stato aggravato dalle inquietudini originate dall’emergere di nuove figure di intellettuali e di professionisti socialmente più apprezzati, e dalla lenta e continua erosione della propria posizione economica.
Nella scuola dell’autonomia, inoltre, la valorizzazione del ruolo del dirigente scolastico e i tentativi di scomposizione della funzione del docente con l’introduzione delle figure di staff hanno fatto esplodere reazioni risentite e aggressive di rifiuto nei confronti di ogni innovazione di sistema e l’insoddisfazione della propria condizione professionale.
Con l’autonomia gli insegnanti non sono andati al timone della scuola (N. Bottani). Anzi.
I cambiamenti degli ultimi anni sono vissuti dagli insegnanti più anziani, spesso, come una grave ferita alla “parità” celebrata nei decreti delegati dei primi anni 70, come un declassamento.
L’introduzione della R.S.U. in ogni singolo istituto non ha risolto la grande questione della “dignità” e dello “status” del docente nella scuola e nella società; in alcuni casi anzi ha irrobustito il sentimento di estraneità alla proprie responsabilità pubbliche ed ha alimentato conflitti interni ad ogni sede scolastica, privi di significato.
L’esplosione della crisi e del disagio sociale degli insegnanti è da collegare alla proletarizzazione delle loro condizioni di vita, e allo stravolgimento delle aspettative di status e di considerazione sociale, causate dalle costanti politiche governative di riduzione della spesa scolastica.
Questi fenomeni vengono registrati nella coscienza di parte considerevole della categoria con inquietudine e talvolta con rancore.
Tra l’altro gli insegnanti, come categoria, nelle proprie rivendicazioni hanno avuto molte incertezze che dipendono dal fatto che come gruppo sociale non hanno unitariamente e ragionevolmente interpretato le trasformazioni che hanno investito il loro ruolo e la loro immagine sociale.
L’ideologia dell’autonomia professionale verso cui si orientano, quasi per compensazione, discrete porzioni della categoria oscilla dall’esaltazione della specificità della professione (con i tratti di incommensurabilità del proprio lavoro, enfasi sulla funzione etc) alle richieste di privilegi corporativi e rappresenta comunque un impedimento a razionalizzare la propria posizione nella società. La soluzione al problema del disagio degli insegnanti non può essere trovata nella rincorsa nostalgica di presunti antichi privilegi, anche se nelle loro contrastanti richieste di considerazione e di valorizzazione, nella loro ricerca di valori da ceto medio va riconosciuta un’esigenza che deve essere presa in considerazione e che può tornare utile all’intero sistema scolastico.
Il problema non è solo di natura economica, anche se il bisogno di un esercizio altamente professionale dell’insegnamento richiede dei costi sociali.
La questione del “prestigio” e dell’ ”autorevolezza” del docente, che emerge imperiosamente nelle aspettative della categoria, non si può relegare nell’ambito dei problemi di psicologia sociale, come si trattasse di un caso di falsa o cattiva coscienza collettiva.
Nel tempo si è visto che è un problema serio, la cui soluzione richiede un riordino generale del reclutamento dei docenti, del rapporto di lavoro, una battaglia culturale di grande respiro a sostegno del lavoro dei docenti, una modifica profonda del regime disciplinare interno delle scuole, un controllo rigoroso del lavoro scolastico.
La sindacabilità di tutte le scelte dell’insegnante a prescindere dagli aspetti squisitamente tecnici, ha tolto autonomia e dignità al lavoro dei docenti. Ha ingenerato l’insicurezza che porta alla remissività e alla condiscendenza nei confronti degli “utenti” o all’aggressività nei confronti di ogni controparte e in alcuni casi all’abdicazione alle proprie responsabilità.
Occorre ripristinare per quanto possibile quel poco o quel tanto di funzione pubblica della scuola, che serva a riportare l’insegnamento tra i compiti istituzionali di uno stato da difendere, per disancorarla dalla collocazione tra i semplici servizi sociali. La scuola e gli insegnanti dovrebbero essere uno degli aspetti tra i più civili e umani del volto delle istituzioni pubbliche presso le nuove generazioni.
Finora disagio e attaccamento ai propri doveri, rifiuto e adesione ai valori del sistema scuola sono stati i termini entro i quali si sono definiti, con tendenza al peggioramento gli atteggiamenti pubblici degli insegnanti. Bisogna rompere questa logica. Sarebbe un grave errore provocare o rafforzare con scelte sbagliate atteggiamenti e posizioni antistituzionali dell’insegnante.
Gli atteggiamenti “non collaborativi” o peggio ancora di rifiuto servono a confermare solo gli aspetti peggiori del sistema scuola (selettività, abbandono degli alunni di estrazione popolare; diffusione di comportamenti rinunciatari; degrado dell’insegnamento).
Non sarà facile uscire dal “disagio”: duraturi e radicati sono la disillusione e lo scoraggiamento degli insegnanti.
La mancanza di turn – over, la stazionarietà generazionale del corpo docente, con prevalenza di individui anziani, la friabilità di tutte le ipotesi di innovazione, che hanno frantumato le residue riserve di entusiasmo e di energie, hanno consolidato una cultura del disincanto che si potrà rimuovere con molta fatica.
Ci vuole una grande scommessa pubblica sulla scuola e sulla valorizzazione del docente per cominciare un’altra volta a sperare che le innovazioni piccole o grandi che siano, ma necessarie, possano mettere radici, consolidarsi e dare frutto. Il momento non è dei più facili e richiede un surplus di passione educativa e di cura delle persone e il mondo della scuola non si può permettere il lusso della rassegnazione
L’insegnante deve poter svolgere il proprio lavoro, senza inutili impedimenti, senza imbarazzo e senza umiliazioni.