Ripartire: decisamente sì, ma bene


di Antonio Valentino

1. Se la ricostruzione comincia dalla scuola…

Sono confortanti tutti questi pronunciamenti per la riapertura della scuola e la parola d’ordine che ‘non una sola ora di lezione si perda più’.

Mai la scuola aveva avuto tanti fan di ogni colore politico e tanti riconoscimenti della sua importanza. Strano che non sia stato ancora coniato lo slogan Scool First. Ma forse solo perché va forte ancora la disputa accesa sulle misure di sicurezza, con tutti i suoi sviluppi quotidiani da prima pagina.

Per carità, la individuazione di misure appropriate, di problemi ne pone; e certamente i problemi legati alla sicurezza sanitaria – causa pandemia – sono assolutamente inediti. Ma una gestione così sconfortante – e per giunta arretrata – di questa emergenza era forse prevedibile, ma non a questi livelli.
Non a caso ho parlato prima di gestione arretrata. In quanto fatta di parole d’ordine che, se giustamente richiamano l’importanza e la necessità di riaprire le scuole, non riescono ad andare oltre. Il Presidente Conte ha parlato, da par suo, di ‘imperativo assoluto’ e la Ministra, ormai convertita, dopo aver chiuso la scuola per più di sei mesi, ha ripetuto il refrain, senza porsi le domande giuste sui mali cronici della nostra scuola che l’emergenza da Covid ci ha gettato sotto gli occhi – e in qualche caso ha accresciuto in modo netto e drammatico.

Certamente aprire è una  priorità assoluta; ma non meno importante è sapere come e con quali prospettive dare un senso all’apertura.

Certamente, considerata l’importanza, sotto il profilo sociale e culturale, di riprendere una normalità di rapporti tra insegnanti e studenti, tra scuola e famiglie – bene si è fatto a fissare la data della ripresa delle lezioni senza tentennamenti. Ma quale attenzione si è riservata al partire bene? Favorendo, ad esempio, la consapevolezza non generica dei problemi che l’emergenza ha messo sotto gli occhi di tutti? Problemi che nascono, in buona parte, da un prima fatto di ritardi cronici, diffuse arretratezze culturali e professionali, di diseguaglianze tra i nord del Paese e i suoi tanti sud che si collocano anche nel nord geografico, e che evidenziano ritardi e incongruenze su aspetti importanti del fare scuola.

A partire – vale la pena ripeterseli –

  • da curricoli e competenze in uscita ormai disancorati dalle grandi rivoluzioni della nostra epoca,
  • da didattiche e metodologie ancora centrate in prevalenza sull’insegnamento frontale e in molti casi non adeguatamente ‘attrezzate’ di cultura digitale,
  • da relazioni e clima in cui la centralità di chi apprende è in molti casi un obiettivo difficile da centrare,
  • da spazi di apprendimento e da un patrimonio edilizio ormai fuori dal tempo e da tecnologie digitali spesso obsolete o mancanti,
  • da un profilo docente ancora caratterizzato da autoreferenzialità e separatezza.

Evidenze e problemi che non diventano ancora però consapevolezze diffuse.

Tra questi, se ne vuole richiamare soprattutto una che è emersa con particolare urgenza dall’inizio della pandemia: quella delle molte situazioni di studenti e famiglie che non hanno potuto/saputo collegarsi con i loro insegnanti per partecipare alle lezioni a distanza.
Si parla del 15-20% – della popolazione scolastica, ma è da presumere che il dato della rilevazione è per difetto. In ogni caso si tratta di un numero enorme di studenti (dal milione e mezzo ai 2 milioni) che ha vissuto la scuola come istituzione lontana, difficile da raggiungere, anche dove non è mancato l’impegno dei docenti.
Ne conosciamo le cause – anche perché si tratta di casi vissuti come problematici già prima del Covid-19 – di fronte ai quali le strategie messe in campo dalle scuole si sono dimostrate inadeguate.
Povertà educativa – associata spesso a povertà economica, sfiducia, disagi familiari, emigrazione – hanno vanificato anche l’impegno di quei dirigenti e docenti che pure hanno teso a creare contatti personali e fornito strumenti opportuni per favorire una ‘offerta’ accettabile.

Quella vista in questi mesi, raccontata in altri termini, è l’immagine di un servizio scolastico che ancora mal si posiziona dentro una idea convinta di uguaglianza e quindi di equità ed inclusione [1].

  1. A proposito delle nuove consapevolezze da sviluppare.

Con riferimento alle emergenze riportate in evidenza dalla pandemia, la questione più immediata, che soprattutto gli istituti superiori si trovano ad affrontare prima dell’apertura generalizzata delle scuole, riguarda, come è noto, le attività previste da una specifica Ordinanza ministeriale del 16 maggio scorso (prevista dal DL n.22/2020); con la quale si fa obbligo alle scuole di pianificare tali attività, per offrire agli studenti , con la riapertura delle scuole (1 settembre), sia percorsi  ‘individualizzati’ di ‘recupero’ nelle materie in cui erano state rilevate insufficienze negli scrutini di giugno (PAI), sia attività di ‘integrazione degli apprendimenti’, che la pandemia non aveva permesso di affrontare nel secondo quadrimestre. Nell’Ordinanza, come è noto, si parla distintamente di Piani individualizzati di apprendimento (PIA), sia di Piano di integrazione degli apprendimenti (PIA).

Ma, a rileggerla – l’Ordinanza -, è difficile trovare riferimenti ad una chiara consapevolezza sulle questioni emerse, da cui far derivare impegni precisi. Consapevolezza che avrebbero richiesto, in primo luogo,  attenzione prioritaria alle risorse professionali e finanziarie  necessarie  per pianificare e organizzare gli interventi previsti.

Si ha l’impressione invece di trovarsi di fronte più a un documento volto a giustificare la scelta della promozione generalizzata degli studenti alla classe successiva – criticata da settori influenti della scuola e da fette di opinione – che di un atto di indirizzo finalizzato a evidenziare il senso dell’operazione proposta e renderne possibile la realizzazione migliore.

A riprova può essere portato il comportamento della Ministra, che dopo alcune iniziali dichiarazioni difensive su tale Ordinanza – volte soprattutto a magnificare e a nobilitare la ragione della sua scelta ‘di rigore’ – ha preferito, nelle numerose interviste e apparizioni televisive di questi mesi, puntare tutto e solo sulle questioni  della sicurezza, regalandoci descrizioni appassionate sulle diverse tipologie di metri per il distanziamento nelle scuole, piuttosto che sul tipo di banchi (si è capito che lei ama quelli a rotelle) o sul miracoloso plexiglass; o ancora – e soprattutto  – sull’algoritmo da applicare alla misurazione degli spazi, che avrebbe risolto d’emblèe, dentro le aule, e anche fuori e altrove, tutti i problemi della ripartenza.

Ovviamente – e su questo non ci piove – la sicurezza sanitaria è una condizione primaria. Ma se essa continua a essere l’unica preoccupazione, tra l’altro ingigantita in misura tale da oscurarne il senso e le finalità, allora vuol dire che qualcosa non gira per il verso giusto. Con il rischio che già i corsi di recupero e integrazione curricolare delle due prime settimane di settembre, previste dall’Ordinanza, diventino pannicelli caldi per qualche ulteriore illusione.

Tra l’altro, su tali corsi c’è in ballo una controversia Amministrazione-Sindacati che rischia di rendere ancora più incerto il clima. È di alcuni giorni fa, 26 agosto, l’Ordinanza a firma del dott. Bruschi che, a proposito dei Piani di recupero e integrazione, chiarisce che le attività in essi previste, “debbano intendersi quale attività didattica e quindi non retribuibili “con emolumenti di carattere accessorio”. ‘Alveo degli adempimenti contrattuali ordinari’ a parte, quello che non si capisce è perché, su un caso come questo, certamente destinato a introdurre in una situazione delicata e particolarmente pesante – ulteriori motivi di dissapori e conflitti, non si sia voluto puntare a chiarimenti e ricomposizione nei mesi precedenti. Tanto che uno si chiede: Ma per  casi come questi, non c’è l’ARAN – e il buon senso e l’opportunità -?

  1. Il Piano scuola 2020-2021: occasione per ridisegnare il POFT e programmare il nuovo a.s. sulle priorità evidenziate nel periodo della DaD.

Allargando poi  lo sguardo dai Piani previsti dell’Ordinanza del maggio scorso alla ripresa generale dell’attività didattica, appare evidente che l’attenzione andrebbe posta sulla ricerca di un clima di riflessione e condivisione, in primis dentro le scuole, delle consapevolezze che l’emergenza sanitaria ha sollecitato, per mettere a punto un nuovo patto formativo tra tutti gli attori in campo.

Ma la sensazione è che sembrano mancare, per una operazione di questo tipo, segnali attendibili dallo stesso Ministero. Ne è segnale, a suo modo preoccupante, il Decreto ministeriale del 26 giugno sul Piano Scuola 2020-2021.

Tale Decreto viene presentato come documento per la pianificazione delle attività per il 2020-2021, che certamente sarà ancora segnato dal COVID–19. Ma nel documento poco si colgono le aspettative – e quindi le misure e gli investimenti – che già da alcuni mesi hanno cominciato a delinearsi da più parti nel dibattitto sulla scuola.

Vi prevale invece lo stile esortativo delle migliori occasioni (“valorizzare le forme di flessibilità derivanti dall’Autonomia scolastica”, “aggiornare il POFT con i PIA e PAI”, “studiare gli accomodamenti ragionevoli” per una gestione all’altezza della situazione degli alunni con disabilità, riorganizzare, migliorare e valorizzare eventuali spazi presenti nelle scuole”); e si richiamano  e si mettono ben in fila, alla fine del documento, azioni e strumenti per la ripartenza; ma solo quelli a carico delle scuole.

Il ruolo dell’Amministrazione – la sua parte in termini di condizioni da costruire direttamente e di risorse e supporti da garantire – è visibilmente riservato invece a impegni e attenzioni sostanzialmente ordinarie. Solo nei capitoli dedicati alla Formazione e al Piano scolastico per la didattica digitale (e, in quest’ottica, al Piano scolastico per la didattica integrata) si coglie più attenzione alle condizioni richieste sui due fronti; anche se la ‘visualità’ complessiva appare ancora piuttosto miope.

Mi riferisco all’assenza di richiami alle forme stimolanti del fare formazione, previste dal Contratto Integrativo del novembre scorso, quali: la formazione tra parie dentro gruppi di approfondimento e miglioramento e attraverso attività laboratoriali, la formazione di ricerca ed innovazione didattica e la ricerca-azione.

Forme importanti perché configurano modalità formative tese 1. a sviluppare – con opportuni supporti esterni – competenze professionali soprattutto sul campo (all’interno cioè del proprio ambiente di lavoro e in coerenza coi bisogni formativi dei propri studenti); 2.  a privilegiare non solo la dimensione collegiale della formazione, ma anche il protagonismo dei soggetti coinvolti (degli insegnanti in primo luogo). Prospettiva in gran parte da costruire dentro le scuole e tra le scuole, che ripropone essa stessa l’interrogativo: “E il ruolo di indirizzo e garanzie di condizioni, da parte dell’Amministrazione Centrale?”.

Quello che comunque appare fondamentale per questi primi mesi è che il Piano scuola del 2020-2021 e il Piano di formazione di Istituto (PFI) diventino occasione speciale per dare coerenza – valorizzando al meglio gli spazi dell’autonomia – al discorso delle priorità dell’essere e fare scuola in questa fase e attrezzarsi per dargli gambe.

[1] L’ONU nell’Agenda 2030, nel suo Obiettivo n° 4, dedicato alla Formazione, scrive: “Fornire un’educazione di qualità, equa e inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.