di Enrico Bottero
(www.enricobottero.com)
L’attuale situazione di emergenza, provocando la chiusura delle scuole, ha aperto un’ampia discussione sull’uso della didattica a distanza, sui suoi limiti e sulle sue possibilità. Questa discussione è stata l’occasione per far emergere un contrasto più profondo che da tempo circola nella scuola e nella società. Sono emerse diverse posizioni ma per brevità mi limito a segnalare quelle più significative e apertamente opposte tra loro.
Parafrasando Umberto Eco, definirei le prime quelle degli apocalittici e le seconde quelle degli integrati.
Gli apocalittici denunciano il tentativo di sfruttare l’emergenza coronavirus per imporre un maggior controllo sui metodi di insegnamento limitando così la libertà degli insegnanti. Gli apocalittici hanno ottime frecce al loro arco. In effetti, da tempo si sta tentando di uniformare gli insegnanti a una sorta di esperanto neoliberista che identifica la buona didattica con i mezzi utilizzati per realizzarla e organizza dall’alto il controllo dei risultati senza mai preoccuparsi di ciò che si fa in classe in termine di trasmissione di cultura e di crescita delle persone. Si pensa che grazie alla “società della conoscenza” l’accesso ai saperi sarà democratizzato, si afferma che i metodi attivi sarebbero miracolosamente resi operativi grazie alle tecnologie dell’informazione e molto altro. Il miglior insegnante, per i sostenitori di questo modello, che qualcuno ha definito del progressismo organizzativo (1), è quello che riproduce pratiche standardizzate per ottenere determinate performance, anche grazie all’utilizzo salvifico delle nuove tecnologie.
Il tutto si può realizzare all’interno di una scuola che di fatto non è più un’istituzione ma un semplice servizio la cui qualità si misura con il metro della soddisfazione degli utenti/clienti. (2)
Secondo questa visione, la scuola deve “rendere dei conti”, produrre risultati: “pedagogia bancaria”, l’avrebbe chiamata Paulo Freire. Gli integrati del progressismo organizzativo, però, non rappresentano affatto la pedagogia, come sostengono con insistenza polemica gli apocalittici.
Rappresentano “una pedagogia”, la versione moderna e soft della pedagogia tradizionale che si propone di fare lezione con altri mezzi ma non modifica l’organizzazione delle attività né propone una radicale revisione delle modalità di valutazione in funzione formativa.
Tutto bene dunque? Niente affatto, perché se è vero che la scuola non deve “rendere dei conti” è pur vero che deve “rendere conto”.
I ragazzi che sono affidati alla scuola impegnano l’insegnante a ideare tutti i modi possibili, nelle condizioni date, per far raggiungere l’apprendimento a tutti, anche a distanza, quando ciò può essere utile o non ci sono alternative. Se la didattica a distanza non è la panacea che può sostituire la didattica in presenza non è neppure un demone da rifuggire in nome della superiorità della relazione diretta.
Da tempo sappiamo che la “forma scolastica”, cioè il sistema organizzativo fondato sulla lezione collettiva e simultanea, le classi chiuse, la prevalenza della valutazione selettiva su quella formativa produce esclusione e ostacola successo formativo di tutti.
Questo sistema, affermatosi con la nascita delle scuole nazionali, non è coerente con l’art. 3 di quella Costituzione che gli apocalittici invocano spesso a difesa della libertà di insegnamento.
La Costituzione è il nostro comune patto di convivenza civile e va rispettata in toto. Nel testo costituzionale diritti degli individui e diritti collettivi si integrano a vicenda. Non ci sono gli uni senza gli altri. Dunque, per dare sostanza all’art. 3 della nostra Carta, la scuola dovrebbe modificare la sua tradizionale organizzazione del lavoro, dei tempi e degli spazi. In sintesi si potrebbe dire: dai programmi agli obiettivi di apprendimento, dalla classe chiusa ai gruppi flessibili, dalle rigidità disciplinari ai progetti multidisciplinari, dall’insegnamento collettivo alla pedagogia differenziata, dagli esercizi classici al lavoro per progetti e problemi, dalla valutazione selettiva alla valutazione formativa. La sfida è trasformare il sistema formativo nel suo insieme, un compito che dovrebbe veder impegnati sia i decisori e gli amministratori che gli insegnanti.
Oggi, però, la “forma scolastica” resta una pietra miliare della scuola: né gli apocalittici né gli integrati sembrano metterla in discussione proponendo pratiche alternative.
Gli apocalittici difendono i loro spazi di libertà ma non vediamo da parte loro molte iniziative volte a utilizzare l’autonomia didattica per introdurre qualche modifica organizzativa nella direzione indicata.
Agli integrati, poi, gli schemi di un’organizzazione del lavoro top down non sembrano andare così male. Si pensa a un’organizzazione aziendale della scuola secondo un modello verticale taylorista, oggi contestato anche in molti settori del mondo produttivo. Conservatori gli uni, conservatori gli altri, avversari nelle discussioni ma in pratica alleati, a conferma dell’incredibile stabilità dell’organizzazione del lavoro nella scuola affermatasi nel corso del XIX secolo.
(1) Il progressismo organizzativo fa riferimento alle teorie dell’organizzazione e del management oltre che a teorie dell’apprendimento di impronta comportamentista utili a rendere i risultati facilmente osservabili. Ad esso si contrappone il progressismo pedagogico che ha la sua origine nelle variegate esperienze dell’Educazione nuova.
Agli apocalittici sfugge questa differenza e pertanto condannano tutta la pedagogia.
(2) Su questi temi rinvio a un mio articolo sull’autonomia scolastica in Italia