di Antonio Valentino 1. Recuperare al più presto la normalità di prima per progettare il dopo La priorità in questi mesi è – ovviamente – prevedere per settembre un rientro a scuola in piena sicurezza. Recuperare la normalità di prima (riportare gli studenti nelle loro classi) – seconda fase – è l’obiettivo primo da realizzare, ma anche la condizione essenziale per pensare di dar gambe a tutti quei ragionamenti di questi mesi volti a superare proprio quel tipo di normalità – quella di prima – che proprio la didattica a distanza (DaD) ha dimostrato non più sostenibile, se si vuole ridare senso e valore alla scuola. La Didattica a distanza, adottata nell’emergenza sanitaria di questi mesi, ha dimostrato certamente – come ci siamo detto in coro – la sua utilità in questa fase, ma ha anche reso più evidenti, e pesanti per il Paese, alcuni problemi vecchi e nuovi che impongono la ricerca di risposte sensate e stringenti. Ne richiamo schematicamente – a mo’ di promemoria – i più urgenti:
- l’inadeguatezza del nostro sistema di istruzione a farsi carico degli studenti più fragili e svantaggiati, ben sintetizzata nelle parole di Stefano Stefanel[1], che rimanda al problema della dispersione scolastica, ma anche della povertà educativa;
- La persistenza delle tante scuole della nostra scuola e delle diseguaglianze spesso pesanti e insostenibili tra le diverse aree del paese, che mettono in discussione il principio della scuola pubblica come bene comune e come sistema unitario;
- La visione prevalente, almeno nella secondaria, delle materie di insegnamento come ‘compartimenti stagni’ anche dentro le attività previste per una stessa classe; con la conseguente difficoltà dello studente a cogliere, in molti casi, le linee portanti di un progetto formativo comune;
- La riproposizione di fatto, anche nell’esperienza della DaD, di quello che Tullio De Mauro definiva Il “triangolo perdente” della nostra scuola: la lezione, l’interrogazione e il voto (ancora prevalente, anche se certamente in crisi), nel quale si annidano le ragioni dei nostri tanti insuccessi scolastici, segnalati dalle rilevazioni nazionali e internazionali;
- L’inadeguatezza in molte scuole (presumibilmente la maggioranza) di una cultura e una pratica digitale – e di condizioni operative (ambienti e strumenti) con esse congruenti – che non ha permesso – di tale cultura e pratica – la valorizzazione delle potenzialità straordinarie e multiformi. Il superamento di questo gap, con la riapertura delle scuole a settembre e la ripresa della didattica in presenza, diventa anch’esso condizione dei cambiamenti innovativi a cui puntare.
2. La formazione del personale: promettente leva del cambiamento
I problemi di cui sopra rinviano in larga misura alla questione formazione in servizio del personale scolastico (detta meglio: allo sviluppo permanente e strutturale delle professionalità della scuola) su cui in tanti ci stavamo interrogando – a seguito della sottoscrizione del Contratto integrativo del novembre scorso – anche a ridosso dell’esplosione della pandemia. Che ovviamente a riproposto altre urgenze alla scuola e al vasto mondo interessato che le gira intorno. Diventa perciò importante, nella prospettiva di una fase tre anche per la scuola (dopo la fase della chiusura di questi ultimi mesi e della riapertura a settembre), riprendere la discussione sulle diverse questioni poste dal contratto integrativo di novembre scorso, recuperando, con le novità positive con esso introdotte, i dubbi e le domande, in parte nuove, che ci sta consegnando l’esperienza drammatica di questi mesi. Ciò significa, in primo luogo e operativamente, riconcentrarsi- su idee e proposte volte a creare condizioni tali da rendere effettiva e praticabile l’obbligatorietà della formazione in servizio, su cui si era cominciato a riflettere immediatamente prima che esplodesse l’emergenza sanitaria. Fugando dubbi e perplessità;
- Sulle potenzialità che il Piano Formativo di Istituto (PFI) – che, come è noto, è il dispositivo, già previsto dal CCNL 2006-2009 (art. 66), che, con il nuovo contratto integrativo, recupera centralità e diventa – può diventare – documento strategico delle scuole, accanto al POFT, al RAV, al PdM e alla RS.
3. L’obbligatorietà da costruire
4. Per un PFI di valore strategico
Sul secondo punto, ovviamente legato a quello precedente, la riflessione che qui si propone più distesamente riguarda alcuni nodi da sciogliere per articolare, con l’inizio del prossimo anno scolastico e con una prospettiva a medio termine, un PFI che, deve in prima battuta, farsi carico delle questioni più impellenti che la l’emergenza sanitaria ha determinato e la DAD ha fatto emergere L’interrogativo di partenza, per un approfondimento dei nodi e dei problemi sul PFI, potrebbe essere così formulato: Come saldare il problema della formazione in servizio – che le scuole e l’Amministrazione sono chiamate ad assicurare – con una prospettiva di rinnovamento che tenda a rimuovere le criticità radicate del nostro sistema, sopra parzialmente richiamate. Per economia di discorso, le considerazioni seguenti intendono limitarsi alle responsabilità / opportunità che hanno le scuole sulla questione formazione; e quindi alla messa a punto di una cornice di riferimento e di qualche idea aggiuntiva, per un PFI che si collochi nella prospettiva indicata. Prospettiva che obbliga le scuole a interrogarsi preliminarmente soprattutto su tre nodi problematici, che mi sembrano particolarmente importanti per le loro implicazioni su visioni e strategie auspicabili per migliorare la qualità del fare scuola.5. Nodi e ipotesi di lavoro.
La dimensione temporale. Il primo – solo in apparenza di poco peso – si riferisce al respiro temporale del PFI e pone le scuole davanti alla scelta tra un PFI annuale o triennale. Scelta non da poco, perché chiede di decidere – avendone chiare le implicazioni – soprattutto se: 1. scandire/distribuire l’offerta complessiva di formazione in servizio sul singolo anno scolastico (come sembra suggerire il CCNI di novembre, contraddicendosi); o se 2. privilegiare, in coerenza col PTOF, un PFI triennale – tra l’altro previsto dal comma 125 della L. 107/2015 -, specificando, per la singola annualità, obiettivi formativi e attività. Quello che andrebbe a mio avviso considerato, per una scelta che guardi oltre, è che il Piano di formazione di scuola scandito sul triennio, consente di avere una vista più lunga sull’intero processo, e quindi: 1. di suggerire la collocazione più opportuna e mirata sia delle varie iniziative di scuola e ministeriali, sia di altre agenzie accreditate; ma anche la loro armonizzazione; 2. di ritagliare e ridefinire annualmente obiettivi formativi e attività, ipotizzandone però sviluppi ed espansioni, in coerenza coi processi attivati e favorendo progressività e unitarietà sostanziale dell’offerta formativa. Va aggiunto che un PFI scandito sul triennio consente anche 3. di sviluppare una cultura progettuale dallo sguardo lungo, che assuma a riferimento i traguardi formativi dei diversi cicli e ne ridefinisca / ne rimoduli gli obiettivi formativi in itinere. Dimensione collegiale e dimensione individuale Il secondo nodo riguarda la strategia che si intende privilegiare tra la dimensione individuale e quella collegiale della formazione. Si tratta di chiarire al riguardo se: 1. l’obbligo possa essere assolto anche solo attraverso modalità di autoaggiornamento individuale sulla base di esigenze ed opzioni personali (Il Contratto non mi sembra dica parole chiare in proposito). Oppure se: 2. la dimensione collegiale (condividere l’esperienza formativa – soprattutto nelle modalità innovative previste nel Contratto integrativo[3]) sia una priorità fondamentale per un PFI funzionale al POF di scuola. Ovviamente privilegiare quest’ultima modalità non significa impedire, anche se in misura da definire, forme di autoaggiornamento e autoformazione, tra l’altro previste anche nel Contratto di novembre[4]. Forme e soggetti della formazione Un terzo nodo o, se si preferisce in questo caso, una terza area di approfondimento e chiarimenti, riguarda le forme e i soggetti della formazione. Rispetto ai soggetti, il Contratto chiarisce, come è noto, che sono: – le scuole che singolarmente o in reti di scopo progettano e realizzano le iniziative favorendo anche la collaborazione con le Università, gli Istituti di ricerca, e con le Associazioni professionali qualificate e CON gli Enti accreditati ai sensi della Direttiva n.170/2016; – l’amministrazione centrale e regionale, con il coinvolgimento delle scuole polo, per le iniziative di formazione in servizio a carattere nazionale e pe le azioni di sistema; – singoli docenti o gruppi di essi, a cui si riconosce, come si è già visto, diritto di autoformazione e aggiornamento su esigenze e opzioni individuali, ma che sono comunque tenuti a precisare le caratteristiche delle attività e le modalità di attestazione. Ma precisa anche – il Contratto – che Il piano di formazione d’istituto è realizzato in coerenza a. con gli obiettivi del PTOF, b. con le priorità nazionali, c. con i processi di ricerca didattica, educativa e di sviluppo. Quanto alle forme – per le quali si registra la parte più nuova, per la prima volta, in un contratto sulla formazione, si fa riferimento a: formazione tra pari, di ricerca ed innovazione didattica, di ricerca-azione, di attività laboratoriali, di gruppi di approfondimento e miglioramento. Forme che – mi pare di poter sottolineare – tendono chiaramente a privilegiare non solo la dimensione collegiale della formazione, ma anche il protagonismo dei soggetti interessati.6. Formazione sul campo e comunità di pratica
A quest’ultimo proposito, va riportato in primo piano una modalità che, per quanto non esplicitamente menzionata, è comunque coerente con le indicazioni del contratto e ne potenzia il valore. Il riferimento è alla formazione situata (o sul campo)[5]. Che si caratterizza rispetto alle altre forme perché guarda specificamente alla scuola come ‘il luogo’ prioritario – anche se non unico – in cui le problematiche della formazione – ovviamente anche quelle sollecitate dalle priorità del Piano Nazionale per la formazione del personale – possono immediatamente misurarsi con la concretezza delle situazioni con cui si ha a che fare; e di farlo con colleghi con i quali ci si trova a viverli in prima persona[6]. Se infatti qualificare la formazione e ridarle appeal e senso sono in questa fase le carte vincenti, si tratta in primo luogo di liberarla dagli schemi organizzativi che l’hanno resa inappetibile – ma anche inutile e demotivante – per collegarla contestualmente: – allo sviluppo, in primo luogo, di competenze (interazione e cooperazione in primo luogo vs individualismi e autoreferenzialità) che valgano a gestire le concrete difficoltà di fare scuola ogni giorno, in questa fase di grandi trasformazioni e capovolgimenti; favorendo la connessione tra formazione e luoghi di lavoro (i CdC, I dipartimenti, i gruppi di progetto eccetera, opportunamente sostenuti e orientati, ove il caso, da personale esperto e qualificato); è in questi ultimi, infatti, che i problemi e le difficoltà si toccano con mano e interrogano le esperienze e la cultura del gruppo, e anche le competenze di ciascuno. In altri termini: i luoghi di lavoro collegiale pensati, strutturati e gestiti come ambienti anche di formazione -autoformazione. Una articolazione dei Collegi[7] in Comunità di pratiche educative (rileggere con Wenger, Shon, e Sergiovanni[8] ) potrebbe essere una tappa importante in un progetto di costruzione di comunità professionali e quindi di comunità scolastiche all’altezza del loro compito. NOTE [1] V. tra gli altri, Stefano Stefanel in ”Alcune note sulla Didattica a distanza, in “Nuovo Pavone Risorse”, 28 marzo 2020: “… una cosa è certa: sono gli studenti più deboli, svogliati, assenteisti che hanno maggior bisogno della Didattica in presenza, cioè della “vecchia scuola… Già deboli dentro un sistema cooperativo e comunitario [quello della vecchia scuola], questi studenti sono dispersi nel web e nelle loro lacune, dentro uno sfondo che non li ha dotati di competenze sufficienti per reggere l’urto della scuola in presenza, immaginarsi cosa gli sta succedendo nella scuola a distanza. Il corsivo è mio. [2] (V. sulla proposta del monte ore potenziato: Antonio Giacobbi, Formazione in servizio: nodi non risolti, in “Scuola7”, 3 febbraio 2020, n. 170). [3] La dimensione collegiale è evidente nelle modalità indicate di formazione tra pari, di ricerca ed innovazione didattica, di ricerca-azione, di attività laboratoriali, di gruppi di approfondimento e miglioramento, che rinviano ad attività di segno cooperativo all’interno della singola scuola o tra scuole in rete. [4] Per evitare fraintendimenti, un necessario chiarimento: l’autoformazione individuale e l’autoaggiornamento personale e sono ovviamente cose buone e giuste e ciascuno le potrà coltivare attraverso le cento occasioni che si offrono a livello di territorio o nazionale, sia da parte dell’amministrazione che dell’associazionismo professionale o di altre agenzie e utilizzando il bonus prima richiamato. Ogni formazione passa necessariamente attraverso momenti importanti e decisivi di rielaborazione e metabolizzazione individuale dei processi formativi, quali che siano i luoghi e i modi dei vari percorsi. Quello che si vuol dire è che la formazione del personale in servizio dovrebbe soprattutto favorire e valorizzare la dimensione collegiale del lavoro docente e strategie comunicative e didattiche che si fondano sulla cooperazione e interazione di gruppi che hanno obiettivi formativi comuni e interagiscono con gli stessi gruppi di adolescenti. [5] Da considerare, almeno qui, sinonimi. [6] La teoria di riferimento – Community of Practice – è di Etienne Wenger, elaborata negli anni ’90 assieme ad altri studiosi e ricercatori. Ne sono fondamento l’apprendimento ‘situato’ (Situated Learning) e l’apprendimento attraverso ‘il fare’ (Learning by doing). Dell’ampia bibliografia sull’argomento, si leggono con particolare interesse: “Ricostruzioni di indagini e studi” in Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato, identità, Raffaello Cortina 2006. Sua è l’espressione Reflective Learning. Utili anche: V. anche L. Mortari, Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Carocci Editore, 2011 e C. Mion, Comunità professionale dei docenti. Riferimenti teorici e pratici in “Atti Convegno Dirigenti scolastici Flc Cgil”: “La dirigenza scolastica tra questioni aperte e nuove complessità organizzative”, Napoli 3-4 maggio 2012, Edizioni Conoscenza. [7] V. anche al riguardo, GC Cerini, Le nuove responsabilità del Collegio dei docenti nel piano di formazione di istituto – Scuola7 del 2 dicembre 2019. [8] D. Shon, Il professionista riflessivo, Dedalo, Bari, 1993; T. Sergiovanni, Costruire comunità nelle scuole, LAS 2000. ]]>