L’imbuto di Norimberga: attenti alle metafore!

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imbutodi Stefano Penge

Stanotte mi è tornata in mente una lezione di Bruno Cermignani, il mio amato professore di Filosofia della Scienza, che ci avvertiva dei rischi che si corrono quando si usa una metafora astratta per comprendere un’esperienza concreta.
L’esempio che faceva era quello della conoscenza come specchio del mondo.
Astratta, perché del fenomeno del rispecchiamento prendeva solo l’idea, ma non la realtà. Uno specchio non riflette sempre l’oggetto che gli sta di fronte, e l’immagine non è affatto realistica. Ci sono le leggi dell’ottica (la riflessione e l’inversione dell’immagine), ma anche altre condizioni reali, come l’umidità (lo specchio appannato) e la temperatura che può distorcere lo specchio, fino a fonderlo. Uno specchio in un forno non riflette un bel niente..

L’insegnamento come riversamento della conoscenza nella testa di uno studente tramite un imbuto è un caso dello stesso fenomeno. Prima di ridere dell’ingenuità di chi parla di riempire gli imbuti, proviamo a prenderla sul serio (la metafora) e a toglierle la dose di astrattezza. Se l’imbuto fosse una buona metafora dell’insegnamento, allora…

Prima di tutto: quando si usa un imbuto? Per esempio: da una damigiana di vino o di olio voglio riempire tanta bottiglie più piccole: si chiama travaso. E’ utile per distribuire un bene, per farlo viaggiare, o conservarlo meglio. Magari perché da un Sangiovese volgare si vuole ottenere un magnifico Brunello, che come ognuno sa deve stare in bottiglia almeno cinque anni.
E perché ha quella forma? Il flusso che esce dalla damigiana (che ha una bocca più larga) è maggiore di quello che potrebbe assorbire la bottiglia, che ha un collo piccolo. Se non ho una buona vista e una mano più che ferma rischio di rovesciare e disperdere il prezioso liquido. L’imbuto ha una bocca ancora più larga di quella della damigiana, e poi si restringe. Così si può sbagliare, sia in termini orizzontali (se sbaglio la direzione il liquido non va nel buco) che verticali (se esagero con l’inclinazione verso un flusso troppo importante che la bottiglia non riesce ad assorbire). L’imbuto ha senso perché ha una tolleranza all’errore maggiore di quello del collo della bottiglia; e ha senso se il liquido che si vuole travasare è prezioso.

Che tipo di contenuto si può travasare con un imbuto? Beh, non uno qualsiasi. Deve avere della caratteristiche fisiche precise: i liquidi vanno bene, i gas no. I solidi? Devono essere aggregati in particelle molto piccole (come lo zucchero); ma la farina o la sabbia, soprattutto se umidi, tendono a creare degli intasamenti. Dei tappi, appunto. Quindi bisogna fare attenzione anche alle condizioni meteorologiche.
Certo non basta averlo, l’imbuto: bisogna anche usarlo bene. Bisogna assicurarsi che l’imbuto stia ben fermo, che sia pulito (l’olio tende a restare appiccicato sulle pareti, il vino diventa aceto). Alla fine dell’operazione bisogna tappare la bottiglia, altrimenti è tutto inutile.

Che possiamo concludere? Che l’imbuto non è una (buona o cattiva) metafora dell’insegnamento, ma degli metodi e degli strumenti che si usano quando si vuole travasare conoscenza per distribuirla nel mondo. Metodi che servono a controllare il travaso, a evitare che ci sia dispersione. Strumenti che funzionano con certi tipi di conoscenze, o conoscenze in certa forma (fluida, cioè non strutturata fortemente, o molto parcellizzata). Strumenti che vanno manutenuti, verificati, controllati. Ah, e poi c’è il tappo: a cosa corrisponde un tappo? Per esempio ad un ritmo esagerato di versamento; o a una condizione sociale invasiva, oppure ad una conoscenza che tende a coagulare, a fare “mappazza”.
E se uno non vuole travasare conoscenza? Si poteva usare una metafora diversa? Certo. Per esempio, mescolare farina burro e uova per fare una torta. Oppure piantare un seme nel terriccio e innaffiarlo. O covare un uovo. Far cadere un granello di sabbia in una soluzione sovrassatura.
E per ogni metafora si poteva andare a scavare sulle sue condizioni reali d’uso.