Contro la didattica e la valutazione per “competenze”

rete_numeridi Alessandra Fantauzzi e Carlo Baiocco

Le ragioni principali che vengono addotte per sostenere l’esigenza di una  formazione scolastica “per competenze” sono due:
(a) la necessità di mettere in relazione le conoscenze con il loro uso pratico già nel processo di apprendimento e poi nella vita sociale e professionale e di non isolarle a un livello teorico scisso da quello sperimentale;
(b) la possibilità di misurare mediante le competenze il “valore aggiunto” ottenuto a scuola, in quanto esse sarebbero misurabili a differenza delle conoscenze.

In realtà, la prima motivazione è banale, perché l’esigenza di non scindere la teoria della pratica non è una scoperta della pedagogia moderna, ma semplicemente la caratteristica di qualsiasi buon insegnamento, da Socrate in poi. Soltanto chi non conosca la storia della cultura scientifica e del suo insegnamento può credere che qualcuno possa mai aver seriamente pensato che sia possibile apprendere la matematica senza fare esercizi e applicazioni o che la fisica possa ridursi all’apprendimento astratto di leggi teoriche.

E’evidente che la tematica della didattica per “competenze” abbia ben altra natura e risponda ad altri scopi. Da un lato, essa mira a conformarsi alle raccomandazioni del Parlamento Europeo circa le competenze chiave per l’apprendimento permanente, che hanno come obiettivo la standardizzazione dei sistemi scolastici europei. D’altro lato, è espressione di un’ideologia costruttivista che, da tempo, si è fatta largo nel campo dell’istruzione e delle teorie pedagogiche.
Si ammette generalmente che esista un collegamento tra la teoria delle competenze in ambito aziendale e quella che è entrata nei sistemi educativi, ma si tende a minimizzare tale collegamento omettendo che tale teoria fu introdotta dallo psicologo statunitense David McClelland il quale, dopo una breve sperimentazione teorica, la introdusse nelle organizzazioni aziendali, in particolare attraverso la ditta McBer&co da lui fondata nel 1963.
Il tentativo era volto alla misurazione della “motivazione” del dipendente d’azienda e della sua propensione al successo, attraverso il TAT (Thematic Apperception Test).
Tutti i tentativi sviluppati fino ad oggi per rendere “oggettivi” gli avanzamenti di carriere e i bonus relativi alle prestazioni dei dipendenti, nell’ambito del connubio tra la teoria delle competenze di McClelland e il Performance Management System, si sono rilevati insoddisfacenti.
La speranza di introdurre criteri oggettivi, e quindi di misurare le competenze, si è scontrata con il fatto che le interpretazioni del modello hanno spesso caratteristiche locali, se non personali, e quindi altamente arbitrarie. Inoltre, la necessità di semplificare entro una tipologia schematica situazioni di alta complessità, conduce a formulazioni fatte a tavolino e aventi esili relazioni con la realtà. Nonostante queste difficoltà – che fanno dire a molti specialisti del settore che la teoria delle competenze in ambito aziendale “fa acqua” da tutte le parti – essa è stata brutalmente importata in ambito scolastico e imposta ex lege come nel nostro caso.
Una legge dello Stato, il Decreto Legislativo numero 62 del 2017 e un coacervo di circolari e note ministeriali, in aperta violazione con quanto stabilito dall’articolo 33 della Costituzione della Repubblica, impongono agli insegnanti italiani una scelta didattica precisa: insegnare per competenze attraverso l’ introduzione di una certificazione delle Competenze.
Competenze che vanno misurate secondo i dettami di un ente esterno (Invalsi) attraverso sia la procedura di somministrazione censuaria di test, sia la compilazione di un Rapporto di Autovalutazione (RAV), al quale segue un Piano di Miglioramento (PDM), entrambi soggetti, poi, al controllo, al parere ed alla valutazione del (Nucleo esterno (!) di Valutazione (NEV), organo, che a sua volta, valuta poi gli stessi docenti!

Chiunque abbia una nozione anche vaga del concetto di misurazione si rende conto che una competenza complessa, come ad esempio la comprensione linguistica, non è misurabile!

Una grandezza per essere misurabile deve ammettere un’unità di misura definibile in termini oggettivi e indipendente dall’introduzione di variabili ausiliarie. Ciò non esclude che una “qualità” possa essere suscettibile di valutazioni quantitative, le quali tuttavia non sono misure, ma semplici stime. Ciò è possibile a condizione di essere consapevoli che una siffatta trattazione quantitativa non soltanto non è una misurazione esatta, ma è intrisa di fattori soggettivi.

Come hanno osservato in un recente documento congiunto (“Citation Statistics”, reperibile in rete) la International Mathematical Union, l’International Council of Industrial and Applied Mathematics e l’Institute of Mathematical Statistics, se si sostituiscono le qualità con i numeri, si ottiene banalmente qualcosa di misurabile, ma la sostituzione è del tutto arbitraria. L’uso dei test può dare risultati migliori delle valutazioni individuali dirette solo se i test riguardano capacità semplici e definibili in termini molto elementari e se si utilizza un unico sistema. Pertanto il ricorso ai test è utile a livello della valutazione di “competenze” minime, pur restando intriso di elementi soggettivi. È quel che ammettono gli studiosi liberi da pregiudizi ideologici.
Essi ricordano che non esiste un’unica definizione accettata di competenza: e già questo dice molto sulla fragilità della costruzione. Sono state costituite commissioni mondiali per studiare la definizione di competenza, senza successo: sono state proposte definizioni diverse a centinaia. La conclusione cui si è giunti è che, se si adottano definizioni deboli, ovvero relative a capacità elementari, qualcosa può essere stimato. Se invece si considerano fattori affettivi e motivazionali nessuna stima quantitativa è possibile.

Questa ammissione, condivisa da chi si è occupato in modo serio della questione, non impedisce che vi sia chi si ostini, con insano fanatismo e becera prepotenza, a parlare di misurabilità delle “competenze”, addirittura di “competenze della vita”e “competenze di cittadinanza” ed a cercare di imporla per legge. Il vero punto di forza della didattica delle competenze sta nell’esigenza di determinare modalità di valutazione delle capacità lavorative delle persone che valgano per tutta l’area europea. Allo scopo le culture nazionali rappresentano addirittura un intralcio.

Le “competenze” chiave enunciate dal Parlamento europeo e recepite poi dal Parlamento italiano, corrispondono a quella esigenza e inevitabilmente, cercando anche in parte di semplificare la complessità, indirizzano verso un approccio anticulturale in cui non c’è posto per la letteratura, la storia o la filosofia e neppure per una scienza concettuale, mentre tutto lo spazio è riservato a capacità meramente tecnico-operative-esecutive.
Chi, come un insegnante, ha a cuore il futuro della scuola deve invece battersi per ricomporre rapidamente l’artificiosa dicotomia tra conoscenze e competenze e difendere una visione della formazione che non si pieghi a esigenze esclusivamente tecnocratichee di mercato del lavoro, senza nulla togliere a queste esigenze che nella Scuola, però, non dovrebbero entrare.
E’ singolare la leggerezza con cui le posizioni, pedagogiche e culturali, che fanno capo a una visione fondata sulla “paideia” socratica, costituita dal circolo luminoso e fecondo di “agalma” ovvero l’attrazione verso il sapere, come vuoto da non riempire, come vuoto da produrre, come vuoto da aprire, come luogo di una mancanza da preservare e come circolarità di e fra “eromenoi” (maestri che amano il sapere), “erastes” (amante del sapere) ed “eromenos” (ciò che è degno di essere amato) e su una tradizione umanistica che esalta l’epistemologia delle discipline e la scuola come percorso di costruzione culturale ed educazione all’esercizio del sapere critico e del libero pensiero, siano state “gettate alle ortiche”, in favore dell’adesione acritica a visioni aziendaliste ispirate alla totale subordinazione della formazione culturale a esigenze di carattere produttivo, a quelle esigenze che concepiscono la scuola come un luogo di formazione di addetti per aziende e non di cittadini che sulla cultura fondano la loro libertà di essere, di conoscere e, perciò, di agire!

Il problema è che il “fatal, letal trittico” di abilità, conoscenze e competenze non è solo inutile, ma conduce a risultati disastrosi, perché codifica una separazione a tre livelli: come se esistessero situazioni accettabili in cui uno possiede conoscenze, ma non sa farne uso, oppure sa farne uso, ma si blocca di fronte a un problema. È una distinzione che svilisce l’idea di conoscenza che è sempre stata pensata come inclusiva dei tre aspetti, giustamente mai distinti, sempre complementari e paritari e sempre da valutare complessivamente.

Molti, infatti, confondono le abilità con le competenze e dicono che il loro corso farà acquisire la conoscenza del tal concetto nel senso di «comprenderne il significato» e la competenza nel senso di saperlo «usare». E sbagliano, perché questa è l’abilità mentre la competenza è qualcosa di più, come la comprovata capacità di usare conoscenze e abilità metodologiche, personali, relazionali ed anche emotive, affettive e relazionali per risolvere problemi ed affrontare situazioni. Insomma, alla fine, la competenza è semplicemente un agire personale strettamente basato e legato armonicamente ed armoniosamente a conoscenze e abilità!

A cosa servono questi marchingegni e questa intricata ed assurda logomachia del “niente”? A battere il nozionismo, si dice! Perché chi si ferma alle conoscenze non è detto che sappia usarle e tantomeno metterle in opera “abilmente” per risolvere problemi e affrontare situazioni.
Ed è proprio in coerenza con questo convincimento che si dà allora il benvenuto e si aprono tutte le porte delle aule al nozionismo più becero, “esclusivo”, invasivo e distruttivo: quello dell’Invalsi!
E siccome il mondo, finora, è stato popolato di idioti, la capacità di formare gente colta e capace è finalmente nata e disvelata e tutto il sapere che ci è stato consegnato è deficiente, oggi non c’è più d’aver paura, poiché, da oltre oceano, dove ormai da diversi anni le stanno modificando ed eliminando a causa della comprovata dilagante ignoranza che alimentano e delle loro comprovate conseguenze nefaste e fallimentari sugli apprendimenti, è arrivata finalmente la panacea di ogni male della Scuola e sono arrivate finalmente la somministrazione coatta di ambigui, univoci e sibillini test, l’insulsa didattica per competenze, l’ancora più deleteria valutazione per “crocette” ed addirittura, udite udite, la più incongrua ed imbecille “strategia” didattica che le demenziali mode pseudo-psico-pedagogiche potessero inventarsi: ovvero la “flipped classroom”, la “classe rovesciata”, dove i discenti miracolosamente diventano tali, dal momento che la mattina l’insegnante non spiega mai e svolge esercizi e quiz e, ancora e di nuovo, quiz ed esercizi ed il pomeriggio, a casa, gli alunni “si app-licano” da soli oppure comodamente “connessi” in chat, mediante altrettanti miracolosi pc ed ipad, questi sì, davvero e per fortuna ritenuti “smart … in the high smart set”!

Noi crediamo fermamente che:

  • così come velocemente la Scuola ha attuato la DaD altrettanto ed ancor più velocemente debba rifuggire la DaD dell’“all connected” e dell’“always connected” prima di tutto e soprattutto perché esclude il “corpo” e la “presenza” del “corpo” e, escludendoli, accentua un’ulteriore dicotomia tra il “sapere” ed il “saper fare”, banalizzando l’apprendimento e riducendolo ad un percorso di mero addestramento;
  • una Scuola che, per risparmiare sul Sostegno, chiede agli insegnanti di diventare “fabbricatori” di PdP, di individuare a piè sospinto BES non certificati (che ormai in ogni classe potrebbero essere più della metà degli alunni) e poi gli impone di sottoporli alla “somministrazione” di test standardizzati “oggettivi” ed uguali per tutti, sia assolutamente schizofrenica, perfida ed esclusiva;
  • una scuola di qualità sia basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline;
  • le discipline, in tutte le loro declinazioni, siano la chiave di lettura del mondo, della società e del nostro futuro e che una reale comprensione del presente e la trasformazione della società richiedano riferimenti che affondino le radici nella storia, nelle opere, nelle biografie e nell’epistemologia della conoscenza delle discipline;
  • separare i tre livelli, “conoscenze/abilità/competenze” conduca ad effetti disastrosi sui processi di apprendimento e sulla costruzione di un sapere simbolico e critico e riduca la conoscenza ad addestramento, ammaestramento ed imbonimento, banalizzandone contenuti e metodi;
  • aggregare compiti e prestazioni degli allievi attorno a competenze predefinite e standardizzate annienti l’organicità dell’educazione, riduca la complessità del mondo ad un “kit di pratiche”, che tali restano anche se ammantate del demagogico appellativo onorifico di “competenze di cittadinanza”;
  • la competenza, unica e trasversale, si consegua nel tempo, nello spazio sociale, nei contesti comunicativi affettivo-cognitivi e la cittadinanza, a cui le competenze comunitarie aspirano, non sia un insieme di rituali individuali da validare e certificare. Cittadinanza è “operare in comune”;
  • non abbia senso misurare “livelli di competenza” degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo;
  • il sapere non si acquisisca mai definitivamente, in quanto esso è continuamente rinnovato dalla maturazione, consapevolezza, interiorità, ricerca singolare e plurale, approfondimento di contenuti e pratiche;
  • accostare una valutazione autoreferenziale di “agenzie” esterne a quella del corpo docente nel “curriculum dello studente”, mini la relazione di fiducia scuola-famiglia, spostando l’attenzione sull’esito, più che sul processo e sul percorso, togliendo ogni significato agli obiettivi di personalizzazione ed inclusione che la Scuola afferma di perseguire;
  • un’agenzia “terza”, l’INVALSI, (che a noi costa più dell’intera somma destinata a livello nazionale al “Fondo d’Istituto” e che ora, ahinoi, si appresta addirittura a voler valutare gli alunni nella e dopo la DaD con batterie di test “ad hoc”!!!) non possa svolgere affatto compiti di valutazione e di ricerca pedagogico-didattica orientanti programmi e curricola;
  • la terzietà non sia, inoltre, comparabile con gli incarichi affidati dal MIUR per la valutazione (diretta e indiretta) di docenti e dirigenti attraverso meccanismi di premialità e differenziazione;
  • la presenza di agenzie esterne, “Fondazione Agnelli” e “3L”, nella valutazione del singolo rappresenti un’espropriazione di quella responsabilità complessa e raffinata negli anni con l’esperienza e la condivisione collegiale, della professionalità ed “umanità” di ogni insegnante che sole possono condurre alla valutazione vera ed autentica degli studenti.E inoltre
  • Noi riteniamo che sia diritto-dovere di ogni docente quello di esercitare la propria libertà di insegnamento “come autonomia didattica e come libera espressione culturale al fine di  promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni.”;
  • noi riteniamo giusto promuovere e perseguire la saldatura del legame intergenerazionale attraverso la trasmissione coerente, anche a livello cronologico, di conoscenze, la costruzione di percorsi e temi, il dialogo incalzante, la maieutica, la circolarità, l’apprendimento cooperativo fra pari, la condivisione di interpretazioni e scelte linguistiche, il problematizzare insieme, l’attenzione ai tempi, alle emotività, ai livelli di partenza, alle possibilità e finanche alle reazioni di sguardi e comportamenti;
  • noi insegneremo senza “competenze”, noi valuteremo senza “competenze”, noi faremo lezione senza competenze e saremo seminatori di “segni”, saremo guide di incontri fra persone in cammino in una comunità inclusiva;
  • faremo lezione “con i pari e tra pari”, anche senza gli aggettivi “frontale”, “dialogata”, “laboratoriale”, “tutoriale”, “collaborativa”, aggettivi che sono mere rifiniture burocratiche che non ne intaccano la sostanza. Una lezione può, infatti, e deve essere un laboratorio educativo, di crescita e partecipazione, di scambi fra tutti ed anche fra i disagi, i successi, gli insuccessi, i cambiamenti ed i miglioramenti di ciascuno, insegnante incluso, al fine di “educere” ovvero di tirar fuori e non di “tirar dentro”;
  • ci “commuoveremo” insieme agli studenti, in quanto ci “muoveremo” con loro e per loro;
  • ci “interesseremo di loro, nella loro totalità di “anima e mente” per “essere fra loro” e con loro;
  • saremo responsabili e garanti di quell’“incontro” che solo dà un senso ed un valore ai fatti culturali delle discipline insegnate in una relazione di pari dignità tra maestro e studente, nel microcosmo di un’autentica collettività di classe per quanto più possibile non giudicante e valutante. Soltanto quest’ultima relazione, infatti, permette agli allievi il “ben-essere” di frequentare sereni la Scuola e di imbattersi nel non conosciuto, di praticare il dubbio, il senso critico, la poliedricità del reale, l’incontro con la difficoltà del reale e del vivere in comunità e di aprire un orizzonte culturale diverso magari anche da quello familiare o sociale;
  • valuteremo “percorsi lunghi ed “incorporati” (e, perciò, soggettivamente valutabili), senza “griglie” e senza “rubriche” e, soprattutto, prove “oggettive”, convinti che la valutazione degli studenti sia impegno non unico, qualificante e delicato dell’insegnante, soggettivo ed anche condiviso con la comunità dei docenti e dei discenti, consapevoli dei cambiamenti che generano i processi di apprendimento e che la valutazione, a scuola, sia autovalutazione, sia un’osservazione “prossimale” e corresponsabile, modulata su tempi lunghi, sull’evoluzione del singolo allievo, delle pratiche di insegnamento, del gruppo, del contesto, del qui ed ora;
  • saremo aperti al confronto collegiale con gli altri colleghi in una dimensione aperta e narrativa che tenga insieme il progetto ed il percorso, e non privilegi unicamente il punto d’arrivo, l’ epistemologia delle discipline e la didattica, la specificità degli ordini di scuola e la continuità, la tradizione pedagogica e l’innovazione metodologica o tecnologica/digitale, considerata, però, come un’ulteriore opportunità di diversi possibili strumenti di ampliamento ed accesso a contenuti e conoscenze, convinti che l’impiego di tali “innovazioni” debba essere il frutto di una costante riflessione e di un’attenta, equilibrata valutazione, incondizionata e libera.

 

Noi, infine, siamo fermamente convinti del fatto che codificare pratiche e sclerotizzare metodi, presentandoli come la priorità della Scuola, sia una vergognosa operazione che annulla i percorsi cognitivi e metacognitivi dei ragazzi, una semplificazione banalissima, retorica arbitraria e demagogica, corrispondente ad un preciso modello culturale preconfezionato, che tenta di ridefinire finalità e ruoli dell’istruzione pubblica in ossequio e sudditanza ad un’ideologia opprimente, in quanto univoca ed indiscussa, ossia quanto di più lontano dalla Scuola, che è stata, è e rimane “Organo Costituzionale” preposto a sanare le differenze socio-culturali così come mirabilmente la disegnava Piero Calamandrei.