Valutazione ed esami ai tempi del Covid-19

votidi Cosimo Quero

C’era una volta la continuita’ educativa …
C’era una volta la storia educativo-formativa degli allievi !
In un precedente contributo relativo al problema della valutazione finale degli alunni per l’anno scolastico che si conclude, abbiamo ipotizzato alcune soluzioni.
Si aggiungono ulteriori chiarimenti.

Sembra evidente che il problema della valutazione finale si sposti in avanti, l’anno prossimo, per la validità giuridica della medesima.

Permane il problema degli apprendimenti fondamentali (l’oro e non le scorie!) previsti dai Programmi nazionali.
Gli apprendimenti fondamentali e le competenze dei diplomi di maturità che aprono all’Università e di quelli delle professioni intermedie, vanno recuperati. in due modi possibili: o in corsi di recupero presso le scuole di pertinenza aAnche in orario pomeridiano\serale con relativa retribuzione dei docenti) , o con corsi mirati all’Università, prima dell’avvio degli insegnamenti di laurea ( e qui ritorna l’esigenza degli apprendimenti fondamentali e della continuità educativa).
Si ritiene impossibile certificare l’interruzione dello studio di punti fondamentali dei Programmi nazionali, per l’emergenza Covid 19 ?
Resta indiscutibile l’avanzamento di tutti gli studenti nel loro corso di studi, pena l’invalidita’ giuridica di eventuali arresti (non a caso non si parla di promozione e bocciatura !).

Gli esami finali

Vogliamo restituire la titolarità dei medesimi ai Docenti che hanno seguito gli alunni nel loro corso triennale o quinquennale che sia, di studi ? Anche se con validazione per la presenza di rappresentanti esterni dello Stato ?




Il 6 “pandemico” e i voti alti

votidi Stefano Stefanel

Inizierei questo breve intervento sulla valutazione e sulla didattica attraverso una banale annotazione linguistica e politica. Si sta parlando sui social e sui mass media di “6 politico” e trovo la cosa insultante e irritante, tra l’altro l’ennesimo modo per esacerbare gli animi da parte di una certa parte politica, cui però si sono aggregati anche altri soggetti da cui non me lo sarei aspettato.
Il così detto “6 politico” era la richiesta fatta circa 50 anni fa dalla frange più estremiste di sinistra, partita dal movimento studentesco nei confronti dell’Università (in quel caso si parlava di “18 politico”, riferito ai trentesimi).
Era dunque una richiesta così detta “proletaria” che voleva eliminare la “scuola di classe”.
Nel 68 si sono fatte molte cose buone e molte scemenze: questa era una scemenza colossale. Trasferire però quella richiesta dentro una pandemia mi pare solo un avvelenamento dei pozzi. E in questo momento bisogna maneggiare con cura tutte le parole.

Qui stiamo parlando di un “6 pandemico” assegnato agli studenti in difficoltà, deboli, svogliati, poco presenti, poco connessi, poco aiutati dalle famiglie. E questo “6 pandemico” sta dalla parte della Lettera ad una professoressa, non da quella di movimentismo di oltre 50 anni fa. Anche perché molto spesso questa invettiva compare a difesa degli studenti bravi, che vedrebbero i loro voti positivi resi più “ingiusti” dal “6 politico” dato a tutti. Il che vuol dire che se oltre ai bei voti, che questi studenti lodevoli meritano, non viene dato anche “lo scalpo” di quelli che non ce la fanno e degli ultimi ciò che gli viene dato non ha valore.

E invece il valore è quello che deve essere riconosciuto in questo momento: e lo si può e deve fare con i 7, gli 8, i 9 e i 10. Questo è il momento di dare tanti 10, tutti quelli che servono, tutti quelli che gli studenti si meritano. E’ inutile lodarli e poi dargli 7 lamentandosi che bisogna anche dare il 6 a tutti gli altri. Quindi questo è il momento di valutare nel senso etimologico della parola: dare valore a quello che lo merita. E se merita un valore alto bisogna dare un voto alto.

C’è poi l’ultima aberrazione in questo atroce uso di una parola del passato ”6 politico” ed è quella che se non si danno voti e non si danno voti negativi i ragazzi non studiano. E qui c’è un senso di superiore disprezzo per i giovani e le loro motivazioni, che non dovrebbe trovare spazio tra chi li educa, tra chi insegna, tra chi vive con loro. La pochezza di molte didattiche, la trasmissività estenuante, gli insegnamenti obsoleti, la corsa verso interrogazioni e compiti inutili e nozionistici, un tradizionalismo culturale lontano dai tempi: questo tiene lontani gli studenti dallo studio.

In questa fase della scuola italiana la gran parte degli insegnanti cerca di appassionare, interessare, capire, interagire, ricercare, innovare, analizzare, sperimentare. E facendo tutto questo riesce a tenere una generazione di studenti dentro una situazione mai vista prima, in cui in primo luogo viene negato da una pandemia mondiale il diritto basilare allo studio, allo stare insieme, allo stare a scuola, al vivere da studenti. E questo è quello che si deve valutare con i 7, gli 8, i 9 e i 10, dentro un’idea di scuola che è anche un’idea di cultura e di società. Segnalo perché lo condivido l’intervento su questo sito La promozione sicura autorizza a non studiare più?, di Aluisi Tosolini

Inventarsi oggi bocciature o rimandature per poi condizionare il prossimo anno scolastico (lo studente che a novembre non recupera i debiti e a quel punto dove va? Le classi sono fatte sui numeri pollaio, i docenti assegnati, i libri comprati: ma siamo matti?) significa credere di vivere in un mondo che non c’è. Nei quasi due mesi che ci separano dalla fine dell’anno scolastico deve partire la più grande operazione culturale mai tentata e cioè quella di fidelizzare gli studenti alla scuola, alla cultura, al sapere, alla fraternità, allo studio, al civismo, al dovere. Credo che ce la faremo, perché gli insegnanti stanno dimostrando grandi doti e grandi motivazioni. Ma dobbiamo toglierci dalla testa paragoni sbagliati tra un mondo che non c’è più (quello del “6 politico”) e quello che c’è oggi (quello del “6 pandemico” dato a chi è rimasto indietro). Non spenderei tanto tempo attorno al “6”, ma attorno al resto.

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Coronavirus, a settembre servirà un altro modello di scuola

computerdi Gianfranco Scialpi

Coronavirus, probabilmente l’anno scolastico 2019-20 si è concluso il 4 marzo. A settembre occorrerà proporre “un’altra scuola” per garantire la massima sicurezza agli studenti. La conferma proviene indirettamente da un comunicato dei presidi romani. Una proposta.

Il coronavirus ha chiuso probabilmente l’anno scolastico

Il coronavirus ha fatto saltare il nostro mondo, fatto di velocità, di un esasperato narcisismo e di una prevalenza dell’economico sul politico e prima ancora sulle esistenze. Anche la scuola non è da meno.
Il Coronavirus ha imposto la didattica a distanza e rovesciato il tavolo sulle procedure, sugli adempimenti… Insomma non è azzardato affermare che il virus ha favorito un cambio di passo violento. E questo riguarderà probabilmente la chiusura anticipata dell’anno scolastico. Al momento mancano le condizioni sanitarie per una ripresa.
Situazione che non cambierà con il quasi azzeramento dei contagiati. Mi spiego. Le misure adottate dal Governo rappresentano delle soluzioni non risolutive.

Le chiamano non a caso di contenimento, che purtroppo ci lasciano esposti al virus (prima infezione o ricadute). La situazione sarà risolta e quindi potremo tornare ad abbracciarci, prenderci per mano e baciarci solo con il vaccino. A parere degli esperti non sarà disponibile prima di 12-18 mesi. E questo significherà che a settembre, quando inizierà il nuovo anno scolastico, dovremmo continuare con il rispetto delle regole di distanziamento sociale. Il quadro stride fortemente con l’organizzazione scolastica attuale.

La presa di posizione dei presidi romani conferma la mia tesi

La conferma di quanto sto scrivendo proviene da un comunicato dei presidi romani, ripreso dal quotidiano “Il Messaggero”. Si legge “Mentre il governo e di conseguenza il ministero dell’Istruzione valutano il da farsi, seguendo con attenzione le indicazioni del comitato scientifico che segue l’andamento del Covid-19, i presidi della Capitale non hanno dubbi: “Tornare in classe – dicono seppur a malincuore – sarebbe impossibile”.
Il motivo? Virus e contagi permettendo, nelle prime fasi del ritorno alla normalità si dovrebbero quasi certamente continuare a seguire (e a rispettare) quelle indicazione che finora hanno prodotto buoni risultati: le distanze sociali e l’utilizzo di protezioni, come mascherine e guanti.
Nel comparto scolastico – dentro le scuole e nelle classi – questo significherebbe che ogni alunno dovrebbe essere distante almeno un metro dal proprio compagno e i dirigenti osservano: “Allo stato attuale non ci sono le condizioni oggettive per garantire la riapertura delle scuole nella Capitale”.
In sostanza, le aule sono composte in media da 25-27 alunni, “distanziarli tutti – spiega Tiziana Sallusti, dirigente del Liceo Mamiani – sarebbe molto complicato se non addirittura impraticabile”.

A settembre occorrerà partire con altro modello organizzativo

Ne consegue che a settembre occorrerà inventarsi “un’altra scuola”, declinata in una diversa organizzazione. Sicuramente andranno superate le classi pollaio. Aberrazione pedagogica in tempi normali, rappresenterebbero per il virus la condizione ideale per una sua nuova diffusione.
L’unica soluzione è quella di dividere la classe in quattro sottogruppi, composti ognuno da 7-8 studenti. Questi dovrebbero alternarsi la mattina/il pomeriggio in aula, In questo modo si garantirebbe una presenza fisica di sei giorni a settimana. Tutte le diverse combinazioni devono prevedere uno sviluppo temporale di due settimane per garantire un pari trattamento nella turnazione mattina/pomeriggio.
L’ alternativa è una presenza fisica di quattro giorni. Si continuerebbe il venerdì e il sabato a far scuola con la didattica a distanza. Come soluzione estrema rimarrebbe il proseguo della didattica a distanza per tutta la settimana, In questo caso, però occorre che il Ministro faciliti la firma di un nuovo contratto giuridico per la scuola.




La didattica a distanza non è un nemico della buona didattica

arcobalenodi Enrico Bottero

Questa emergenza ha messo la scuola di fronte al problema della didattica a distanza e dei suoi strumenti.
Anche in assenza di una piattaforma pubblica messa a disposizione del Ministero (come accade in altri Paesi), molti insegnanti si stanno impegnando con costanza e attenzione utilizzando diverse piattaforme disponibili per mantenere un rapporto, non solo didattico, con i loro ragazzi.
Il loro lavoro è prezioso anche per il futuro e conferma che la didattica a distanza, pur con i suoi limiti, non è un nemico della buona didattica. Negli stessi giorni molti hanno aperto una discussione sul senso della didattica a distanza, sulla sua necessità, obbligatorietà e limiti. Dal mondo della scuola sono emerse diverse riserve.
Quella che stupisce di più invoca le norme contrattuali per sostenere la non obbligatorietà. Sul tema non mi pronuncio per assenza di competenza in merito, anche se resta lo stupore. Mi limito a osservare che sulla non obbligatorietà alcuni giuristi hanno sollevato qualche dubbio.

Qualcuno rifiuta anche la necessità di un “giuramento di Pestalozzi”. I medici sono una cosa, si dice, gli insegnanti un’altra. Non sono d’accordo. La professione docente è una professione di cura, anche se non del fisico. Esiste dunque un obbligo morale, deontologico, anche se non ancora formalizzato. Purtroppo chi unisse queste obiezioni, spero pochi, oggi avrebbe argomenti per giustificare il suo non fare nulla. E questo non sarebbe un bel messaggio nel momento in cui molte categorie di lavoratori sono impegnate ad aiutare la collettività a superare l’emergenza.

Ci sono poi le obiezioni più fondate. Si fa notare come nella situazione attuale (assenza di strumenti digitali in molte case, rete non buona in molte zone d’Italia, diversità culturali ed economiche tra le famiglie nel dare un supporto ai ragazzi ) la didattica a distanza non faccia che aumentare le disuguaglianze. È certamente vero ma questi sono aspetti negativi su cui è necessario lavorare chiedendo interventi politici che li riducano (è ciò che hanno fatto alcune Associazioni come il MCE). Intanto, però, è meglio darsi da fare con quello che c’è perché non fare nulla sarebbe certamente peggio.

In qualche caso la critica alle attuali condizioni della rete e delle competenze tecnologiche si estende alla didattica a distanza in quanto tale. L’argomento è interessante perché inoppugnabile: la superiorità della relazione autentica e viva tra insegnante e allievo rispetto alla relazione virtuale. Un’affermazione giusta (e ovvia) se fatta in nome di un fondato metodo di insegnamento/apprendimento che fa tesoro della ricerca sui problemi dell’educazione e delle esperienze delle migliori didattiche attive.
Il rigetto della didattica a distanza potrebbe tuttavia nascondere il tradizionale rifiuto del metodo e delle tecniche, un rifiuto che ha una lunga storia nell’idealismo italiano (Gentile è molto più presente di quanto non si pensi nel nostro inconscio collettivo).
Contro questo rifiuto hanno combattuto generazioni di insegnanti attivisti: da Celestin Freinet, con il suo “materialismo pedagogico” e il primato delle tecniche, a Bruno Ciari (“la tecnica – scriveva Ciari – non è altro che la realizzazione dei valori, i quali non esistono affatto per sé, come nell’iperuranio platonico, ma solo in quanto si attuano nella vita della scuola”) a Francesco De Bartolomeis (v. il suo bel libro I metodi nella pedagogia contemporanea, Loescher, 1963). Le tecniche e le condizioni materiali fanno il metodo, ne sono la concretizzazione (il che non vuol dire però che l’insegnante ne sia schiavo).
Devono naturalmente essere utilizzate bene, con competenza, in modo non passivo, al servizio di una buona pedagogia. Il problema non è dunque l’alternativa didattica a distanza/ didattica in presenza ma quale didattica si fa.
La professoressa a cui scrivevano i ragazzi di Barbiana aveva un’idea chiara idea della scuola e della valutazione, faceva “selezione di classe” e non aveva a disposizione le attuali tecniche ma quelle della scuola moderna (lavagna, quaderno, aula scriptorium/auditorium), nate per diffondere l’alfabetizzazione ma poi ridotte a strumenti di fidelizzazione delle masse agli ideali nazionali. Siamo sicuri che tornando a scuola e allontanata la didattica distanza si tornerà (o, dovrei dire, si passerà?) a una scuola fondata sul coinvolgimento degli allievi, sulla valutazione formativa, su una didattica differenziata, sul lavoro di gruppo, su una scuola attiva e non trasmissiva, il cui unico scopo è la riuscita di tutti gli allievi?
Poiché è l’organizzazione materiale che rende concreto il metodo (e non lo spirito di gentiliana memoria, un velo che copriva la realtà di una pedagogia sostanzialmente autoritaria anche se formalmente seduttiva) è lecito pensare che in alcuni casi le abitudini storicamente consolidate imporranno le loro leggi. Le routine spesso prevale, anche a nostra insaputa.
“Quando il dito indica la luna – scriveva un saggio – lo sciocco continua a guardare il dito”. Facciamo dunque uno sforzo, guardiamo la luna e impegniamoci utilizzando per l’apprendimento di tutti le tecniche che abbiamo a disposizione in quel momento.
La scuola nuova attiva, diceva Célestin Freinet, deve essere “moderna”. Molti insegnanti lavorano già a questa scuola, in mezzo a molte difficoltà. Non lasciamoli soli. Impegniamoci insieme quando sarà finita l’emergenza, anche con una rinnovata competenza digitale. Oggi la sua assenza non è altro che analfabetismo, un avversario storico della scuola e delle sue promesse di emancipazione.




La promozione sicura autorizza a non studiare più?

computerdi Aluisi Tosolini, ds del Liceo A. Bertolucci di Parma 

Dal 24 febbraio, primo giorno di sospensione delle lezioni in provincia di Parma, ho dato il via ad alcune nuove routine che segnassero il tempo nella nuova dimensione della scuola fuori dalle mura.
Tra queste due mail inviate a tutto il personale del Liceo Bertolucci, una al mattino e una alla sera (intitolate Mattutino e Tramonto), dove oltre a fare il punto della giornata che si apre e si chiude fornisco sia informazioni sulle attività in corso che sull’evoluzione normativa oltre che riflessioni più ampie di matrice culturale a partire dal linguaggio poetico.

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Questo il Mattutino di oggi 3 aprile, dedicato alle riflessioni e alle informazioni in ordine alla conclusione dell’anno scolastico, in attesa dell’uscita del documento La scuola fuori dalle mura pubblicato oggi da Avanguardie educative – Indire ed alla cui stesura ho partecipato e che è centrato proprio sul tema della valutazione.

Ai docenti del Liceo Attilio Bertolucci

1. ipotesi su come avviarsi alla chiusura dell’anno scolastico

Come certo sapete, procede il dibattito sugli scenari di chiusura dell’anno scolastico.
Tra le diverse anticipazioni vi è la bozza di un articolato che il Ministero sta limando e discutendo e che dovrebbe diventare, entro la fine di questa settimana, un decreto legge (perchè per cambiare l’esame di stato occorre una legge, non bastando un semplice DM)

I media stamattina (sia tv che giornali) danno la loro interpretazione del testo evidenziando i diversi aspetti.
Al riguardo credo corretto sottolineare – dal mio punto di vista – alcuni elementi del possibile dibattito sulle norme di chiusura dell’anno scolastico e in particolare sul tema della valutazione e del senso complessivo del nostro lavoro.

Facile infatti che serpeggi, e non solo tra gli studenti ma anche tra insegnanti ed educatori, l’idea che siccome tutto rischia di finire con una sorta di 6 politico, allora tanto vale smetterla di lavorare, e far lavorare, con serietà ed impegno.

In questo mese abbiamo spesso sentito raccontare la storiella del leone e del colibrì.
Il primo scappa davanti all’incendio della foresta, il secondo ci vola sopra portando la propria goccia d’acqua per collaborare a spegnere le fiamme.
In queste settimane abbiamo anche visto e sentito moltissimi leoni da tastiera. Coraggiosissimi nel commentare (e in sostanza irridere) i molti colibrì kantiani che reputano doveroso dar senso alla propria esistenza facendo in primo luogo quanto (molto o poco che sia) è nelle proprie possibilità per spegnere l’incendio.

Rispetto al tema “come finirà l’anno scolastico” credo sia giusto porsi poche ma essenziali domande che vanno al cuore del nostro lavoro e del suo senso.

1. Se pensiamo che di fronte ad una ipotesi tipo “tutti sostanzialmente ammessi al prossimo anno di corso” non abbia molto senso continuare a lavorare con impegno, serietà e tenacia, significa che aderiamo all’idea che la scuola – e l’impegno connesso – sta in piedi solo a motivo della coercizione dei voti, degli esami, dello spauracchio della bocciatura. Ma allora, è bene dirselo, non si tratta di scuola come luogo di costruzione e creazione di cultura ma di altra istituzione totale. Su quale, nello specifico, hanno ben detto Foucault e Goffman.

2. Se fosse così significa anche che la nostra autorevolezza non deriva tanto dall’essere prima di tutto intellettuali, scienziati, persone di cultura, appassionati al sapere ma solo addetti alle istituzioni totali di cui sopra. E’ sempre un mestiere importante, sia chiaro, ma di natura decisamente diversa. Basta saperlo.

3. Di conseguenza, se pensiamo che oggi il nostro lavoro non ha più senso “perchè tanto qui si rischia che sono tutti promossi“, occorrerà pur dirsi per quale motivo il nostro lavoro avrà senso da settembre in poi e aveva senso prima di febbraio. Solo perché addetti ad istituzioni totali? Solo perché signori dei voti e delle promozioni e bocciature?

4. Onestamente credo che questa emergenza e crisi globale, che sta intaccando i paradigmi socio-culturali ed economici su cui si è costruita negli ultimi 50 anni la società nella quale viviamo, costringa ognuno e ognuna di noi di dire e a mostrare nei fatti, nei confronti dei nostri studenti e delle famiglie degli stessi, chi davvero siamo.

Di che pasta ognuno di noi è fatto.
Che genere di uomo e donna, che tipo di persona prima che di educatore, ognuno di noi è.
Oggi, e quando questa crisi sarà finita.

2. Patrizia Valduga
Poetessa irriverente e controversa, partita studiando medicina a Padova ma poi finita a Lettere a Venezia a studiare il barocco e su su fino a Pascoli, dichiarando poi il proprio amore assoluto per Manzoni.
Attorno al 2000 ha scritto questa fulminante quartina.
Credo chiuda bene il mattutino di oggi

“Io sono sempre stata come sono
anche quando non ero come sono
e non saprà nessuno come sono
perché non sono solo come sono”