Valutare ai tempi della didattica a distanza

votidi Daniele Scarampi

– dirigente scolastico dell’IC di Vado Ligure (SV)

Fa quel che può, quel che non può non fa, stigmatizzava laconicamente il celebre maestro Manzi, nel lontano 1981, sull’allora scheda di valutazione della scuola Elementare.
Sberleffo provocatorio, sicuro, eppur utile lezione anche per la scuola di oggi, invischiata nella palude di un’mergenza planetaria che sta minando certezze e consolidati paradigmi didattici e pedagogici.

Del resto, non è mai troppo tardi per prendere coscienza dell’opportunità di un robusto cambio di prospettiva e, all’epoca della didattica a distanza (DAD), la valutazione degli apprendimenti offre un fertile esempio su cui riflettere.
Ora, che cos’è la valutazione? Ma soprattutto: che cosa si valuta? Il voto è un numero e un numero è un indice sintetico, non narrativo; certifica qualcosa, ma di fatto racconta poco o nulla. La valutazione invece è un processo, un’argomentazione, la rilevazione di un prodotto, di un’azione.
In sintesi, è la determinazione di un giudizio di merito, del valore di qualcosa (Scriven, 1991). Per valutare, dunque, non basta misurare un sapere, occorre piuttosto attuare un processo di ricerca che dia un valore estrinseco a ciò che viene preso in considerazione, dimodoché la rilevazione possa avere una dimensione operativa ed efficace.


Da sempre, in tema di valutazione, si sono scontrati (a volte amalgamandosi, a volte entrando in conflitto) due paradigmi ben distinti: quello docimologico, inscindibilmente legato alla valutazione certificativa, parziale o sommativa, e quello regolativo, associato invece alla valutazione educativa e formativa.

La valutazione docimologica misura gli apprendimenti in base al raggiungimento di specifici obiettivi; la valutazione regolativa, invece, va oltre la misurazione della prestazione ed è funzionale alla formazione degli studenti perché innesca processi riflessivi e metacognitivi, attraverso i quali ognuno è in grado di ripercorrere le tappe del proprio apprendimento, capire gli eventuali errori commessi e prendere consapevolezza del percorso effettuato.

La valutazione formativa, pertanto, stimola la riflessione sui processi d’apprendimento in modo da poterli orinetare o modificare consapevolmente.

Sic stantibus rebus, alla dimensione metacognitiva a quella pro-attiva della valutazione il passo è breve: solo così i problemi che si incontrano nell’apprendimento possono essere sviscerati e decodificati, alla ricerca di soluzioni adeguate e condivise, per nulla sanzionatorie. Siamo dinanzi a una sorta di “cultura della valutazione”, orientata verso lo sviluppo dell’identità dei ragazzi mediante la pianificazione di azioni performanti e successive, che ha le sue radici nelle Indicazioni Nazionali di cui al DM 254/2012, così come rinvigorite dalle Linee Guida Miur del gennaio 2018 (Nota n.312) e – soprattutto – dalle Indicazioni Nazionali e “nuovi scenari” del marzo 2018.

L’odierna didattica a distanza (DAD), prima consigliata e poi resa obbligatoria dagli interventi normativi succedutisi sulla scorta della crisi epidemiologica in atto, fino al recentissimo D.L. 22/2020, presuppone – va da sé – una valutazione a distanza (VAD): in questo contesto del tutto peculiare la partita tra paradigma docimologico e paradigma regolativo assume un’importanza decisiva, quasi epocale: in ballo, infatti, c’è un cambio di prospettiva, dall’educare a imparare all’educare a pensare e a riflettere su quanto prodotto.

Di valutazione a distanza parla per la prima volta, in modo esplicito, la Nota ministeriale n.279/2020 che, di fatto, rimanda alla professionalità dei docenti, alla libertà d’insegnamento e alla cornice normativa all’interno della quale ogni PTOF imposta il protocollo valutazione, ovvero il DPR 122/2009 e il D.lgs 62/2017.
Tuttavia è con la successiva Nota n.388 del 17 marzo 2020 che si fa strada, in modo più robusto, la necessità di una valutazione regolativa, fondata sull’approfondimento e sulla valorizzazione, capace di dar lustro al processo formativo dei discenti, stimolandone la pratica dell’autovalutazione. Il passaggio è nodale perché dalla misurazione di una prestazione ideale, in chiave certificatoria, si passa alla necessità di attestare i progressi successivi compiuti dagli studenti, peraltro occasione di cooperazione tra docenti, alunni e famiglie, già architrave del patto educativo di corresponsabilità.

Ne consegue che, in ottica formativa, ogni errore debba essere considerato una leva di miglioramento e non un deterrente; i voti o i giudizi – elaborati anche mediente rubriche o dossier esplicativi – debbano riferirsi non a specifiche contingenze, bensì alla fotografia complessiva del processo di crescita e di maturazione dello studente, con un’attenzione particolare allo sviluppo di eventuali nuove competenze, in linea con il concetto di imparare a imparare, sostrato fondamentale di ogni cittadinanza attiva e consapevole.

Il paradigma regolativo applicato alla VAD presuppone anzitutto la rilevazione della partecipazione, della disciplina dimostrata e del rispetto delle consegne assegnate; presuppone altresì la capacità dimostrata dai ragazzi di interagire, comunicare, superare le difficoltà, risolvere i problemi e, non in ultimo, riflettere metacognitivamente sui prodotti realizzati.

Certo, la valutazione dei contenuti – soprattutto nella scuola Secondaria – non può essere totalmente disattesa, tuttavia dev’essere un mezzo piuttosto che un fine e va gestita mediante l’utilizzo di prove destrutturate o semistrutturate (capaci di stimolare i collegamenti, le riflessioni, il probelm solving, lo sviluppo di competenze intese come l’amalgama di contenuti e saperi già acquisiti) oppure i colloqui in modalità sincrona e in collegamento a distanza.

La scuola, pertanto, chiamata a una nuova e complessa sfida metodologica, gioca con la DAD (e la relativa VAD) una partita decisiva, proiettandosi verso un orizzonte didattico che potrebbe delineare gli scenari del futuro, a breve e a lungo termine.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

D. Parmigiani, L’aula scolastica, Franco Angeli, 2014
D. Parmigiani, L’aula scolastica 2, Franco Angeli, 2018
Nota ANP “Come attuare la valutazione a distanza?”




Pubblicato in GU il decreto scuola n. 22 dell’8 aprile 20208

Il decreto scuola su esami di Stato, scrutini di fine anno, didattica a distanza, adozione dei libri di testo e altre misure ancora è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’8 aprile.
E’ il decreto n. 22 ed entra in vigore il 9 aprile.
Il testo è disponibile qui.




Educare e insegnare ai tempi del Covid-19. Parla lo psicologo

spiraledi Massimo Giugler, psicologo
Studio Sigre – Ivrea

In Canavese l’ultimo giorno di lezione è stato il 21 febbraio. La chiusura delle scuole per le vacanze di Carnevale si è tramutata in chiusura per la prevenzione della diffusione del Covid-19. Da allora sono trascorsi quasi due mesi e altrettanti ne trascorreranno prima di un’altra chiusura: quella di un anno scolastico decisamente anomalo.

Ma come cambia la scuola in questo nuovo scenario e come cambia di conseguenza il ruolo degli insegnanti? Credo sia necessario porsi questa domanda, prima di declinare le azioni che gli insegnanti possono attivare in questi mesi di chiusura forzata.

E’ necessario partire dal contesto: le scuole, ribadiamo, sono chiuse per un motivo sanitario e gli allievi sono a casa in una situazione di forte restrizione. Convivono forzatamente con i propri familiari in un contesto in cui si respira un’aria di preoccupazione per la salute propria e dei propri cari, per il futuro personale e collettivo, per le conseguenze di questa pandemia, per il lavoro, per la situazione economica. In molte famiglie la preoccupazione è ancora più elevata laddove vi sono dei componenti che svolgono delle professioni sanitarie. In altre famiglie si sono vissuti dei lutti o dei momenti di significativa preoccupazione dovuti ai ricoveri di famigliari in ospedale o per la contrazione della malattia.

I bambini si trovano in mezzo a una tempesta emotiva: anche se i genitori si impegnano a erigere un cordone protettivo, le preoccupazioni transitano e si sedimentano in loro. Spesso i bambini non possono vedere i nonni, o altri componenti della famiglia, con i quali avevano un rapporto significativo. Se hanno i genitori impiegati in professioni sanitarie devono mantenere le distanze di sicurezza: non possono abbracciarli ed essere abbracciati. Possono aver subito un trauma, come i propri genitori, nel caso in cui il nonno sia deceduto. E non lo hanno nemmeno potuto salutare, né accompagnare al cimitero: un sparizione incomprensibile e un vuoto che pesa in famiglia e che aumenta il carico emotivo.
E ancora: non possono uscire per giocare, non possono vedere i propri compagni di scuola, non possono praticare lo sport preferito e frequentare altri compagi di gioco, non possono più seguire fisicamente i corsi ai quali erano iscritti. Il ritmo della giornata è allentato e ciò crea in loro ulteriore disorientamento. Convivono in spazi e situazioni a volte carichi di tensione per le difficoltà di relazione tra e con i genitori o con i fratelli, hanno dovuto adattarsi, in poco tempo, a una nuova modalità di organizzazione della propria vita e, in particolare, di approccio allo studio e alla scuola.
Quando questa è stata chiusa non hanno potuto salutare né gli insegnanti, né i compagni. Non si sono detti arrivederci, né dati un appuntamento certo, come quando la scuola chiude per le vacanze estive. Vivono, come tutti noi, un tempo sospeso, senza una data certa per il ritorno a scuola.

Se esprimiamo quanto detto in termini di BISOGNI dei bambini, li possiamo così sintetizzare:

–          BISOGNO DI RELAZIONE CON FIGURE ADULTE SIGNIFICATIVE “SCOMPARSE”
–          BISOGNO DI CONDIVISIONE CON I COETANEI in forme “NUOVE” proposte dagli adulti
–          BISOGNO DI EMPATIA (DI EMOZIONARSI CON…)
–          BISOGNO DI PROSEGUIRE il proprio PROCESSO di APPRENDIMENTO” (ATTRAVERSO nuovi             STIMOLI alla RICERCA)
–          BISOGNO DI RITMI (anche rituali) CHE LI STRUTTURINO DURANTE LA GIORNATA
–          BISOGNO DI PENSARSI IN UNA PROSPETTIVA FUTURA DI RITORNO ALLA NORMALITA’

Viene allora da chiedersi come possano gli insegnanti riuscire a colmare, almeno in parte, questi bisogni. Ritengo che questa debba essere la sfida, la nuova frontiera. Dal mio punto di vista agli insegnanti viene chiesto un cambiamento significativo, che non è basato sull’apprendimento delle nuove tecnologie. La sfida è come riuscire a rimanere empaticamente connessi ai propri alunni, come continuare ad essere quel punto di riferimento significativo come lo sono stati negli ultimi mesi (o anni), come trasformare la didattica della distanza a didattica della vicinanza.

Provo a suggerire alcune attenzioni, convinto però che l’agire dell’insegnante passa necessariamente dalla connessione con la condizione emotiva dei bambini di questi giorni o, in altre parole, dalla risposta alla domanda posta in premessa: quale diventa il ruolo dell’insegnante ai tempi del Covid-19?
Cito due funzioni: una a livello di singolo bambino, una a livello di gruppo classe.
Credo che sia molto importante che i bambini percepiscano i docenti, che li sentano non solo e tanto attraverso i compiti, ma sentano la loro voce, li possano vedere. La voce è calda, suscita emozioni, conduce a ricordi, lega al contesto scuola che oggi manca. Se poi potessero sentire che la voce, in alcuni momenti, è solo per loro (messaggi personalizzati), si sentirebbero ancor più gratificati e legati alla voce stessa. E ritroverebbero un significativo punto di riferimento.

A livello di gruppo: gli insegnanti possono agire azioni che facciano percepire che la classe c’è ancora, che i compagni sono vivi e stanno bene. Ciò vale soprattutto per la fascia delle infanzia e primaria, dove, almeno fino alle classi V°, non vi è, sanamente, autonomia nell’uso di smartphone e social e quindi contatto diretto con i compagni. Come può essere mantenuta la dimensione classe in una situazione in cui ognuno è a casa sua? Ideale sarebbe la presenza di tutti sullo stesso monitor, con i loro volti, le loro voci: un luogo virtuale che diventa un contenitore. Ma se ciò non è possibile ci si può immaginare altre forme di comunicazione, purché si abbia presente anche l’esigenza dei bambini di percepire il gruppo classe.

Ci tengo ancora ad evidenziare una funzione trasversale che possono agire gli insegnanti: recuperare il legame con il recente passato e dare prospettiva. I bambini hanno una dimensione del tempo concentrata sul presente, fanno fatica, per costruzione cognitiva, a sviluppare un pensiero ipotetico deduttivo che li porti a immaginare il tempo futuro e pongono i ricordi temporali in modo disordinato. Gli insegnanti possono da un lato riproporre, seppur in forma virtuale, abitudini, consuetudini, rituali che erano propri del loro tempo scuola; dall’altro assegnare compiti quali tracciare un ricordo di questi giorni (con foto, disegni, scritti, vocali, video) da tenere e portare poi al rientro a scuola. Un modo per creare una continuità orizzontale che colleghi il presente con il passato e trovare un punto da cui ripartire nel prossimo anno scolastico e ricucire lo strappo che c’è stato.




A proposito del “6 politico”

rete_numeridi Cinzia Mion

C’è un po’ di confusione oggi intorno al “6 politico”.
Allora ecco due righe per fare chiarezza.
Io c’ero. C’ero quando è stata varata la Costituzione (1948) e nella Costituzione, l’articolo 3 e l’articolo 34 sancivano “l’uguaglianza di tutti cittadini” e “la scuola è aperta a tutti..ed è impartita per almeno 8 anni, obbligatoria e gratuita”.
L’Italia diventa (finalmente) un Paese democratico.
L’articolo 3 consta di un principio formale e di un principio sostanziale: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…).
Cioè, la Scuola è una Istituzione della Repubblica e suo compito è rimuovere l’ignoranza che impedisce la libertà e l’uguaglianza di tutti i cittadini, soprattutto in questo periodo storico, dei figli dei contadini e degli operai che precedentemente accedevano solo ai primi anni della scolarizzazione.


La riforma della scuola media unica (1962) con l’abolizione dell’esame di ammissione, con l’irrompere della scuola di massa, segna l’inizio di questo tentativo nobile di democratizzare la Scuola per democratizzare il Paese.
Il Ministero però non ha ri-orientato i docenti nel passaggio da una scuola elitaria ad una di massa. Sappiamo com’è andata. Sappiamo della Lettera ad una professoressa di don Milani, sappiamo che a fare da “cassa di risonanza” a don Milani si è diffusa la critica del Movimento Studentesco del ’68.
Come don Milani aveva affermato che “la scuola non può essere un ospedale che accoglie i sani e respinge gli ammalati” così il ’68 ha adottato lo slogan “La valutazione scolastica seleziona ed emargina attraverso i meccanismi di una valutazione tradizionale sommativa, calibrata per scremare le eccellenze come la Riforma Gentile” Allora è meglio che non valuti perché così tradisce la Costituzione”. Io c’ero.
Da questa “critica sociopolitica” ha origine l’atteggiamento “a-valutativo” del movimento studentesco che onestamente non aveva nessun compito di offrire proposte pedagogiche e nemmeno incoraggiare la rilassatezza dei costumi degli studenti (fra parentesi i sessantottini studiavano dalla mattina alla sera, magari i testi non ortodossi secondo la scuola tradizionale!!!).
Abbiamo dovuto aspettare la critica docimologica, quelle varie psicologiche, per arrivare alla critica veramente pedagogica (L.517/77) che ha (avrebbe voluto) rivoluzionare la valutazione scolastica introducendo quella formativa, questa sconosciuta.
Io c’ero e ancora ci sono. A predicare a vuoto.




Contro il voto: preoccupiamoci di insegnare, non di valutare

io_noidi Cinzia Mion

Questa non è un’invettiva (e non c’entra con la pandemia)
Mi accingo a ritornare brevemente sulla faccenda del voto numerico a scuola solo per chiarire che ciò che la scuola deve fare bene è insegnare (quindi adottare delle didattiche adeguate). 

La valutazione è intrinseca ad ogni processo di educazione ed insegnamento perché, nel rapporto asimmetrico di chi insegna, rispetto a chi impara, deve avvenire un’autoregolazione rispetto a ciò che sta succedendo (chi, quanto, cosa, come, se ha imparato e capito, oppure chi quando, come, cosa, perché non ha imparato o capito, per mettere in atto altre didattiche alternative, più laboratoriali, ecc).
Su questa autentica, e professionalmente impostata, valutazione del docente (che diventa autovalutazione nell’autoaggiustamento di una didattica alternativa) dovrebbe inserirsi l’insegnamento individualizzato, per il recupero delle lacune emerse. Contemporaneamente l’allievo deve essere avviato all’autovalutazione attraverso una legenda che lo aiuta a prendere atto degli errori commessi. Subito, appena traspaiono, senza aspettare che si incancreniscano. I docenti della primaria si incaponiscono in genere di più nel recuperare i più fragili, (ce l’hanno nel DNA questa benefica testardaggine che deriva dall’aver integrato dal tempo della legge Casati il concetto della scuola dell’obbligo) gli altri spesso, non sempre per fortuna, conservano un residuo di “scuola elitaria” (scremare le eccellenze per orientarle al liceo…!) e più velocemente “dimettono mentalmente” quelli che non tengono il passo.

Il tutto in una classe in cui, con il metodo tradizionale, conosciuto perché subìto, si insegna a tutti nello stesso tempo e nello stesso modo. La valutazione a scuola non è finalizzata a creare una classifica, per cui più lo strumento mi aiuta a misurare le microdifferenze con il bilancino, meglio è.
La classifica serve in un concorso per cui un millesimo di differenza può essere un posto di lavoro.

Torniamo alla classe: chi può sostenere che agli alunni serve la classifica? Chi è più bravo e chi lo è meno?

1) Alla classe come “comunità di apprendimento” questo non serve, anzi è deleterio perché introduce dinamiche di competitività (al posto della cooperazione interattiva vigotskiana) e non crea le condizioni per l’insegnamento reciproco, previsto anche dalle Indicazioni

2) La classifica serve al genitore che si accontenta di sapere se il proprio figlio è nella fascia superiore, allora si inorgoglisce narcisisticamente, oppure in quella inferiore, allora si preoccuperà: non gli può fregar di meno sapere “cosa” suo figlio conosce e soprattutto cosa ha veramente capito (comprensione profonda e duratura)

3) La classifica serve a dimostrare al docente? … bella domanda. A cosa serve? Chiedo a chi difende i voti, o a chi continua a sostenere che un modo di valutare vale un altro, di spiegare questa strenua difesa del voto….

4) Chiedete ad un allievo qualsiasi, cosa ha sbagliato se ha meritato un voto inferiore al 10….
Farete una brutta scoperta, tranne rarissime eccezioni, non ve lo saprà dire (addio al sacrosanto recupero dell’errore dispositivo così importante per l’apprendimento) perché quello che diventa interessante in una scuola “così” è il voto non l’apprendimento. Fate voi….




Il Brevetto nella pedagogia Freinet

abcdi Giancarlo Cavinato

Freinet parla di autovalutazione piuttosto che di valutazione. Il che non significa che non sia consapevole della complessità del problema e della sua centralità nella pedagogia dell’educazione. Di come il cosiddetto profitto scolastico accompagni per tutto l’arco della carriera scolastica un ragazzo e possa incidere sull’orientamento per il suo futuro. [1]

Preoccupato per il successo scolastico dei suoi alunni e di tutti i ‘figli del popolo’, di stabilire con loro un dialogo basato sul riconoscimento della dignità dei loro tentativi e delle loro esplorazioni, accanto alle sue tecniche e a quello che definisce il ‘complesso di interessi’ per l’organizzazione della vita della classe [2], egli sperimenta e propone una serie di strumenti il cui presupposto è l’autocontrollo attraverso il piano di lavoro per l’alunno, il ‘profilo vitale che l’insegnante viene via via compilando sulla falsariga del diario in cui l’alunno registra i suoi progressi. [3]

La dimostrazione dell’avvenuta acquisizione di capacità viene effettuata attraverso il brevetto, strumento di riconoscimento mutuato da un lato dall’apprendistato artigianale (la cosiddetta ‘prova d’uso’ che il garzone doveva dimostrare di essere in grado di produrre) , dall’altro dal mondo dello scoutismo, da un altro ancora dall’attestazione da parte di un ente statale della proprietà di un’invenzione.

La valutazione non concerne cioè il complesso di un impianto disciplinare, ma singoli passaggi e tecniche nel percorso di individualizzazione. Il brevetto viene riconosciuto in base a una prova pratica che mostra cosa l’alunno sa e sa fare.
Non è una prova standardizzata, la prova non è lo stessa per tutti ma risponde alle specifiche capacità, esigenze, proposte di ciascuno. A volte si tratta di oggetti, tecniche, schede, ricerche, procedure funzionali al lavoro che sta facendo la classe.
E’ la classe (insegnante incluso) che lo valida. Il ‘prodotto’ viene esposto e diviene oggetto di osservazioni. in determinati momenti il ragazzo lo presenta attraverso una esposizione, la cosiddetta ‘conferenza’. Può essere mostrato a genitori e autorità scolastiche. Al termine dell’anno scolastico viene restituito all’autore. Con il sistema dei brevetti Freinet offre un’alternativa al sistema di emulazione e competizione tipico del voto, ai rischi di demotivazione e frustrazione che esso determina in molti. . ‘Non esistono primi e ultimi. Ognuno può e deve acquistare capacità nelle attività manuali o intellettuali di sua scelta. Ognuno ha così successo a suo modo e secondo le sue attitudini, e ciò è perfettamente conforme alla psicologia del bambino e alle complesse possibilità sociali attuali.’ [4]

Un’esperienza di uso di brevetti al termine di un’attività come il ‘mercato delle conoscenze’ che coinvolge alunni di più classi in forme di insegnamento e apprendimento reciproco si trova nel quaderno MCE ‘Narrare la scuola’ [5].
In questo caso si trattava di far sperimentare agli alunni la necessità e l’efficacia di una messa a disposizione in forme democratiche dei saperi presenti in una comunità.

[1] Redazione Quaderni cooperazione educativa ‘Freinet: dialoghi a distanza’, La Nuova Italia, Firenze, 1997 P. 96
[2] C. Freinet ‘La scuola del popolo’ Ed. Riuniti, Roma, 1973
[3] op. cit. p. 144-146
[4] op. cit. p. 146
[5] P. Scotto, G. Caavinato, A. Busato, ‘Al mercato delle conoscenze. Dare visibilità ai saperi dei bambini’ in, S. Nicolli ( a cura di) ‘Narrare la scuola. insegnanti riflessivi e documentazione didattica’ ed. Asterios, Trieste, 2018, pp. 123-140




Qualche considerazione su valutazione e didattica a distanza

computerdi Cinzia Mion

La prima osservazione che mi sgorga subito, dopo aver cominciato a leggere il testo di Bruschi, che ho conosciuto al tempo della ministra Gelmini, ma che fra l’altro trovo molto migliorato(!), è l’espressione “comunità educante” che non molto tempo fa è stata inserita in uno specifico articolo dell’ultimo contratto della scuola e che mi ha provocato un moto di stupore. Sì, perché certe espressioni quando vengono partorite la prima volta in un dato contesto, con un certo significato e nel tempo sono rilanciate, a livello culturale, sempre nello stesso modo, secondo me non si possono d’emblèe offrire con un significato altro.
Mi riferisco al concetto nato all’interno del personalismo cattolico nella prima metà del secolo scorso, in un tempo in cui la monocultura connotava il comune sentire in Italia e quindi all’interno delle varie comunità civili intorno alla scuola. Tutti allora siamo stati educati al CONSENSO. In famiglia, in parrocchia, a scuola,ecc. I Valori erano comuni.

Società multiculturale e confronto

La situazione però oggi è fortemente cambiata. La società è diventata multiculturale, multietnica e multireligiosa. Non è più possibile pensare alla comunità educante come ad un dato già costituito. E insieme al consenso, riferito alle norme di civile convivenza, la scuola dovrebbe saper anche educare, in modo particolarmente significativo, al Confronto.
Le “Indicazioni” suggeriscono infatti che insieme al pensiero riflessivo si solleciti anche l’insegnamento del decentramento del proprio punto di vista.
E’ per questo che il consenso non basta più, bisogna insegnare la competenza del confronto, attraverso prima di tutto l’arte di ascoltare.

Solo la Scuola può in modo intenzionale e sistematico insegnare la competenza dell’argomentare e controargomentare, indispensabili per sapersi confrontare.
Bisogna vedere quanta energia i docenti attuali mettono in campo per educare al “pensiero riflessivo”, richiesto da questa competenza, oppure se preferiscono la tradizionale triade: lezione, studio, interrogazione e verifica , come restituzione che avviene in genere inesorabilmente attraverso il pensiero riflettente.
Sembra che Bruschi questo l’abbia capito bene perché raccomanda che non si cada nella trappola della “mera assegnazione di compiti…”
A proposto del riferimento consolidato al senso della comunità educante, riflettente spesso le ideologie di appartenenza della famiglie, amo ricordare un passo addirittura dei programmi per la scuola elementare del 1985 che recitava, a proposto dei rapporti tra scuola e famiglia: ”La scuola, rispettando le scelte educative della famiglia, costituisce un momento di riflessione aperta, ove si incontrano esperienze diverse: essa aiuta a superare i punti di vista egocentrici e soggettivi, così come ogni giudizio sommario che privilegi in maniera esclusiva un punto di vista e un gruppo sociale a scapito d’altri”

Capitale Sociale

Sarebbe meglio utilizzare allora il concetto di “Capitale sociale” (anche se non mi esalta la definizione di capitale al posto di ricchezza sociale) coniato da James Coleman. Si tratta anche qui di co-costruire , perché questa ricchezza sociale si attiva solo attraverso l’interazione sociale, le reti sociali e la fiducia. Consiste nell’insieme delle risorse contenute nelle relazioni familiari e sociali della comunità, comprese le Associazioni professionali e gli EELL, che risultano utili per lo sviluppo cognitivo e sociale dei bambini/e o ragazzi/e. Le relazioni fiduciarie alimentano la capacità di riconoscersi, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi reciprocamente, di creare legami (bonding) e gettare ponti (bridging).
Ho voluto rendere chiara qual è la differenza tra il concetto classico di “comunità educante”e quello più dinamico e attuale di “capitale sociale”, nella consapevolezza grosso modo della pseudocoincidenza del riferimento e del fatto inconfutabile che queste relazioni fiduciarie vanno sollecitate e monitorate. Il principale attore dovrebbe essere qui il Dirigente Scolastico .

Comunità professionale di docenti

Rileggiamo però ora il dettato di Bruschi”La didattica a distanza…da un lato sollecita l’intera comunità educante, nel novero delle responsabilità professionali e prima ancora, etiche di ciascuno, a continuare a perseguire il compito sociale e formativo del “fare scuola”, ma “non a scuola”e del fare, per l’appunto, “comunità”…(il corsivo è mio)
E’ evidente allora che Bruschi sta facendo riferimento alla “comunità professionale dei docenti” altrimenti chiamata “comunità di pratica”, quando parla di comunità educante. Esiste infatti già a livello istituzionale questa espressione, già inaugurata ufficialmente dalle Indicazioni Nazionali”(2012) , su cui poggiano già ricerche e approfondimenti.

Andiamo però per gradi.

Innanzitutto chiariamo che la scuola attuale usa il termine “comunità”, attraverso sempre i suoi testi ufficiali, ricavandolo dall’approccio socioculturale interattivo vigotskiano. Tale termine infatti sta ad indicare in primis la classe come comunità che apprende, ossia un contesto ricco di risorse multiple e dislocate, che vengono attivate dal docente e messe a disposizione di tutti. Analogamente dovrebbe avvenire per la comunità professionale dei docenti, all’interno della quale le azioni socialmente orientate sono: la consultazione reciproca, la richiesta di aiuto, lo scambio di informazioni e di saperi, il porre questioni, l’avanzare domande, la discussione, il confronto sulla prassi che richiede la de-privatizzazione delle pratiche didattiche, la negoziazione di significati condivisi. Il problema è che, per fare in modo che la suddetta comunità professionale possa esplicare bene il suo lavoro, devono essere ritagliati all’interno dell’orario di lavoro dei docenti dei “tempi adeguati” per dialoghi di riflessione.
La scuola primaria ha già a disposizione due ore alla settimana , gli altri ordini di scuola invece non ne dispongono. La mia sollecitazione allora è rivolta sia a Bruschi, e quindi al Ministero dell’Istruzione, che alle OOSS affinché nel prossimo contratto chiamino con il vero nome la comunità professionale di docenti distinguendola dalla comunità scolastica più in generale e cerchino di prevedere per tutti gli ordini di scuola i tempi per avviare quel confronto fermentativo che permette di crescere insieme. Tutti gli ordini professionali hanno le loro “comunità di pratica”, a maggior ragione i docenti dovrebbero avere la possibilità reale di farla funzionare. Quei docenti che sono i professionisti della scuola, cui è assegnato un compito nobile e di importanza essenziale perché sono alla base della formazione di tutti cittadini del Paese.

La valutazione delle attività didattiche a distanza.

In merito al tema della valutazione ritengo che Bruschi sia stato nella sua nota più innovativo di certi docenti abbarbicati al “voto”. Ripropongo infatti le sue parole che non arrivano a parlare di “valutazione formativa” ma per tale denominazione manca veramente poco…”Se l’alunno non è subito informato che ha sbagliato, cosa ha sbagliato e perché ha sbagliato , la valutazione si trasforma in un rito sanzionatorio..ma la valutazione ha sempre un ruolo di valorizzazione, di indicazioni di procedere con approfondimenti, con recuperi, consolidamenti, ricerche…Si tratta di affermare il dovere alla valutazione… come elemento indispensabile di verifica dell’attività svolta, di restituzione, di chiarimento, di individuazione di eventuali lacune (io aggiungo:tutti aspetti formativi se il docente se ne fa carico…modificando la sua strategia didattica ed aggiustando il tiro) all’interno di criteri stabiliti da ogni autonomia scolastica, ma assicurando la necessaria flessibilità”.
A dire il vero non so se Bruschi abbia avuto veramente l’intenzione di alludere un po’ alla valutazione formativa e differenziare, sollecitando l’uso del termine criteri, la misurazione dalla valutazione.
Sta di fatto che questa lettura è possibile, comunque augurabile.
La sovrapposizione delle due operazione infatti è l’errore più macroscopico che viene commesso dai docenti, se sono sprovvisti di una sufficiente cultura docimologica che richiede l’esplicitazione dei veri e propri criteri di valutazione. Il PTOF ne pretende la dichiarazione.
Chissà poi se il riferimento alla flessibilità intende mettere in guardia rispetto all’uso sconsiderato del registro elettronico quando suggerisce medie aritmetiche…
Spero ardentemente che non scorgere nessun riferimento al termine VOTO costituisca un invito esplicito a non usarlo, almeno in questa emergenza, provando così a prendere atto che è possibile, anzi migliora il processo di insegnamento-apprendimento.
Provare per credere!

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