Questa emergenza ha messo la scuola di fronte al problema della didattica a distanza e dei suoi strumenti.
Anche in assenza di una piattaforma pubblica messa a disposizione del Ministero (come accade in altri Paesi), molti insegnanti si stanno impegnando con costanza e attenzione utilizzando diverse piattaforme disponibili per mantenere un rapporto, non solo didattico, con i loro ragazzi.
Il loro lavoro è prezioso anche per il futuro e conferma che la didattica a distanza, pur con i suoi limiti, non è un nemico della buona didattica. Negli stessi giorni molti hanno aperto una discussione sul senso della didattica a distanza, sulla sua necessità, obbligatorietà e limiti. Dal mondo della scuola sono emerse diverse riserve.
Quella che stupisce di più invoca le norme contrattuali per sostenere la non obbligatorietà. Sul tema non mi pronuncio per assenza di competenza in merito, anche se resta lo stupore. Mi limito a osservare che sulla non obbligatorietà alcuni giuristi hanno sollevato qualche dubbio.
Qualcuno rifiuta anche la necessità di un “giuramento di Pestalozzi”. I medici sono una cosa, si dice, gli insegnanti un’altra. Non sono d’accordo. La professione docente è una professione di cura, anche se non del fisico. Esiste dunque un obbligo morale, deontologico, anche se non ancora formalizzato. Purtroppo chi unisse queste obiezioni, spero pochi, oggi avrebbe argomenti per giustificare il suo non fare nulla. E questo non sarebbe un bel messaggio nel momento in cui molte categorie di lavoratori sono impegnate ad aiutare la collettività a superare l’emergenza.
Ci sono poi le obiezioni più fondate. Si fa notare come nella situazione attuale (assenza di strumenti digitali in molte case, rete non buona in molte zone d’Italia, diversità culturali ed economiche tra le famiglie nel dare un supporto ai ragazzi ) la didattica a distanza non faccia che aumentare le disuguaglianze. È certamente vero ma questi sono aspetti negativi su cui è necessario lavorare chiedendo interventi politici che li riducano (è ciò che hanno fatto alcune Associazioni come il MCE). Intanto, però, è meglio darsi da fare con quello che c’è perché non fare nulla sarebbe certamente peggio.
In qualche caso la critica alle attuali condizioni della rete e delle competenze tecnologiche si estende alla didattica a distanza in quanto tale. L’argomento è interessante perché inoppugnabile: la superiorità della relazione autentica e viva tra insegnante e allievo rispetto alla relazione virtuale. Un’affermazione giusta (e ovvia) se fatta in nome di un fondato metodo di insegnamento/apprendimento che fa tesoro della ricerca sui problemi dell’educazione e delle esperienze delle migliori didattiche attive.
Il rigetto della didattica a distanza potrebbe tuttavia nascondere il tradizionale rifiuto del metodo e delle tecniche, un rifiuto che ha una lunga storia nell’idealismo italiano (Gentile è molto più presente di quanto non si pensi nel nostro inconscio collettivo).
Contro questo rifiuto hanno combattuto generazioni di insegnanti attivisti: da Celestin Freinet, con il suo “materialismo pedagogico” e il primato delle tecniche, a Bruno Ciari (“la tecnica – scriveva Ciari – non è altro che la realizzazione dei valori, i quali non esistono affatto per sé, come nell’iperuranio platonico, ma solo in quanto si attuano nella vita della scuola”) a Francesco De Bartolomeis (v. il suo bel libro I metodi nella pedagogia contemporanea, Loescher, 1963). Le tecniche e le condizioni materiali fanno il metodo, ne sono la concretizzazione (il che non vuol dire però che l’insegnante ne sia schiavo).
Devono naturalmente essere utilizzate bene, con competenza, in modo non passivo, al servizio di una buona pedagogia. Il problema non è dunque l’alternativa didattica a distanza/ didattica in presenza ma quale didattica si fa.
La professoressa a cui scrivevano i ragazzi di Barbiana aveva un’idea chiara idea della scuola e della valutazione, faceva “selezione di classe” e non aveva a disposizione le attuali tecniche ma quelle della scuola moderna (lavagna, quaderno, aula scriptorium/auditorium), nate per diffondere l’alfabetizzazione ma poi ridotte a strumenti di fidelizzazione delle masse agli ideali nazionali. Siamo sicuri che tornando a scuola e allontanata la didattica distanza si tornerà (o, dovrei dire, si passerà?) a una scuola fondata sul coinvolgimento degli allievi, sulla valutazione formativa, su una didattica differenziata, sul lavoro di gruppo, su una scuola attiva e non trasmissiva, il cui unico scopo è la riuscita di tutti gli allievi?
Poiché è l’organizzazione materiale che rende concreto il metodo (e non lo spirito di gentiliana memoria, un velo che copriva la realtà di una pedagogia sostanzialmente autoritaria anche se formalmente seduttiva) è lecito pensare che in alcuni casi le abitudini storicamente consolidate imporranno le loro leggi. Le routine spesso prevale, anche a nostra insaputa.
“Quando il dito indica la luna – scriveva un saggio – lo sciocco continua a guardare il dito”. Facciamo dunque uno sforzo, guardiamo la luna e impegniamoci utilizzando per l’apprendimento di tutti le tecniche che abbiamo a disposizione in quel momento.
La scuola nuova attiva, diceva Célestin Freinet, deve essere “moderna”. Molti insegnanti lavorano già a questa scuola, in mezzo a molte difficoltà. Non lasciamoli soli. Impegniamoci insieme quando sarà finita l’emergenza, anche con una rinnovata competenza digitale. Oggi la sua assenza non è altro che analfabetismo, un avversario storico della scuola e delle sue promesse di emancipazione.