Non chiamiamola didattica a distanza, ma didattica della vicinanza

   Invia l'articolo in formato PDF   
image_pdfimage_print

In questa intervista raccolta da Reginaldo Palermo Raffaele Iosa, già dirigente tecnico, propone un originale punto di vista su ciò che sta accadendo nelle scuole italiane con la didattica a distanza che propone di chiamare DIDATTICA DELLA VICINANZA

raffaele_iosa


PARADOSSI PEDAGOGICI DI UN VIRUS INATTESO (di Raffaele Iosa).

Ci sono alcune cose che mi sorprendono di questa del tutto eccezionale fase di emergenza in cui un virus ci sta cambiando la vita anche a scuola.

1. Pochi riflettono sul fatto che fino a fine gennaio i medici erano una delle categorie professionali più maltrattate dai cittadini con cause e processi a non finire. Al punto che la spesa per esami aggiuntivi spesso pleonastica era esplosa come “medicina difensiva”. Oggi tutto il paese guarda commosso questi medici e infermieri morire di lavoro per salvare i nostri nonni e li considera eroi.

2. Altrettanto i nostri insegnanti. Pur in tono minore, se prima di gennaio erano implicati in molti conflitti, cause, proteste di genitori di tutti i tipi, al punto da dover fare anche loro una “pedagogia difensiva”, adesso sono più che mai apprezzati per il loro impegno verso i ragazzini chiusi in casa. È sbocciato amore e nostalgia. Basta leggere i social. Ma qualcuno si aspettava prima una risposta di impegni pedagogico così di massa da parte di questi insegnanti. Dunque: è stato l’ignoto a dar cambiare le opinioni su due professioni. La prima, i medici, un del tutto ignoto virus. La seconda, gli insegnanti, le quasi ignote proma macchine virtuali che permettono di vedere e parlare con i propri. Ragazzi anche da lontano.

3. Non mi pare sia giusto chiamare ciò che succede tra insegnanti e studenti “didattica a distanza” ma più esattamente “didattica della vicinanza”. Mi spiego: l’uso di computer, piattaforme, cellulari ecc.. è funzionale alla condizione di emergenza che obbliga gli insegnanti pur di avere ancora una relazione educativa a fare i conti con queste diavolerie in cui spesso sono capaci di più i loro alunni. Non servivano circolari ministeriali nè i brontolamenti sindacali per promuovere questa didattica in emergenza. Perchè questa è la novità: davanti all’ignoto e ai loro ragazzi soli, è nato DAL BASSO un movimento di lavoro pedagogico molto caldo e spesso più duro della tradizionale lezione frontale. E stato quindi un atto civico e al di fuori di tutte le leggi del mostro-scuola che ha mosso gli insegnanti ad agire e ad inventarsi di tutto. Cose buone o meno buone, ma un atto inatteso, se non è esagerato dire un atto d’amore.

4. Sta quindi capitando in ultimo paradosso: si è aperto un processo di apprendimento collettivo e orizzontale legato al fare concreto, non alle chiacchiere dei blasonati “formatori” di moda. Migliaia di insegnanti stanno imparando. Anzi dovendo per forza di cose lavorare con le macchine virtuali capire un po’ di più di cosa vuol dire ITC e sigle simili. Una piccola rivoluzione formativa dal basso, senza santoni e sacerdoti direttivi.

5. Faremo i conti dopo, finita l’emergenza su luci e ombre di questa esperienza. Ma certo l’ignoto virus ha messo alla prova migliaia di insegnanti che hanno preso contatto col virtuale facendo e non ascoltando. Una formazione sul campo di natura attivistica. Per me la scuola, dopo, forse non sarà più come prima. E gli insegnanti racconteranno a sè prima di tutto di come quest’epoca terribile sua stata anche una prova d’amore (reciproco) tra sè e i suoi alunni. La mancanza e l’assenza spesso aiutano a tirar fuori da noi forza e passione, e fantasia. Tutto il resto è secondario e banale, dai documenti al registro, ai voti. Roba da burocrati e sindacalisti. Per gli insegnanti (e per i medici ancora di più) il segno di un’avventura inedita, grande e complicata portata a buon fine. E forse un rapporto nuovo, più amichevole e responsabile, tra professioni e cittadini. Paradossi della sventura di un virus