A proposito del recente Contratto Integrativo.
di Antonio Valentino
Alcuni elementi del quadro generale
Gli aspetti che in prima battuta evidenzierei per introdurre l’argomento sono i seguenti:
[] La prima importante novità è che, con il Contratto Integrativo sottoscritto il 23 novembre u.s., la formazione ridiventa terreno di contrattazione tra le Parti che ne hanno titolo.
Si tratta di una intesa che riapre il dialogo tra il MIUR e rappresentanti dei lavoratori del settore su un tema vitale per il sistema scuola, che il governo Renzi, con la L. 107, ha inteso definire per via legislativa. Perciò va salutato positivamente.
[] Nel merito invece va richiamata la scelta centrale del contratto: la formazione del personale ritorna nelle scuole. Così il testo contrattuale: “La programmazione e la concreta gestione dell’attività di formazione in servizio avvengono a livello di singola istituzione scolastica e di reti di scuole” (art. 2, capoverso 1).
Si supera praticamente il modello organizzativo delle reti di ambito e delle scuole polo per la formazione, previsto con la L. 107/2015 e definito con il Piano Nazionale 2016-2019 (PNF); e scompare l’obbligo che ne era un punto centrale.
[] La motivazione di questa scelta può essere ricercata nella gestione del PNF[1] che ha fatto registrare diffusi malumori, confusione e sostanziale insoddisfazione negli esiti. Nella percezione dei più, quello che non ha funzionato è riassumibile nei seguenti punti:
1. il coordinamento e il sostegno – da parte della maggior parte delle Direzioni Scolastiche regionali –, risultato di scarso peso e poca rilevanza;
2. La difficoltà a individuare, reperire e retribuire adeguatamente formatori all’altezza. Anche il ruolo residuale riservato alle scuole – nell’organizzazione in proprio delle iniziative interne di formazione – è stato oggetto di critiche da parte di settori del mondo della scuola.
Va aggiunto a queste possibili spiegazioni la posizione di molti docenti che non hanno digerito l’obbligatorietà della partecipazione ai corsi. E non è quest’ultimo un rilievo secondario
[] Nel Contratto non si avvertono segni che rimandino ad una analisi dell’esperienza del triennio 2016-2019 2018, volta a capire soprattutto le ragioni per cui la motivazione degli insegnanti è rimasta, in molte realtà (non in tutte però), a livelli vicino allo zero; e così anche il coinvolgimento degli insegnanti. E forse questa è stata una omissione che ha pesato negativamente nella individuazione delle strategie negoziali.
Sul diritto alla formazione
Il punto su cui vorrei ora richiamare l’attenzione, perché tra i più problematici, è il nodo facoltatività / obbligatorietà della formazione, per come è possibile definirlo sulla base dell’art. 2 del Contratto.
Evidenzierei dell’articolo citato i seguenti aspetti:
a. che il diritto alla formazione non prevede obblighi per chi dovrebbe esercitarlo;
b. che tale diritto può essere esercitato anche nella forma dell’aggiornamento individuale, in coerenza col Piano di formazione (PdF) delle scuole (capoverso 2) e che, nella definizione dei PdF, vanno considerate anche esigenze ed opzioni individuali (capoverso 1);
c. che il PdF “può comprendere iniziative di autoformazione, di formazione tra pari, di ricerca ed innovazione didattica, di ricerca-azione, di attività laboratoriali, di gruppi di approfondimento e miglioramento, precisando le caratteristiche delle attività e le modalità di attestazione” (capoverso 3).
A parte la difficoltà che si avrebbe, primo, a costruire un PdF che preveda anche iniziative di formazione che corrispondano ad esigenze ed opzioni individuali e forme di aggiornamento individuale; secondo, a cogliere il senso e l’opportunità di queste indicazioni operative (ma comunque ci si può ragionare su), la questione che mi sembra principale è costituita dal recupero in toto della formazione solo e soltanto come diritto.
È qui il vero cambiamento di passo rispetto al triennio precedente[2]. La vera novità rispetto alla L. 107
La storia della formazione tra “obbligo e diritto” è, come è noto, lunga e complessa. È comunque prevalsa quasi sempre negli anni scorsi la facoltatività dell’impegno formativo.
Punto di svolta, come già richiamato, la L. 107/2015 (comma 124) che, per via legislativa ne introduce la obbligatorietà.
Da questi richiami, una prima domanda centrale: Che senso ha il diritto alla formazione senza il dovere professionale di esercitarlo effettivamente?
D’altra parte, parlare di dovere professionale non dovrebbe essere considerato con sospetto, visto che lo sviluppo e la manutenzione continua della propria professionalità non è proprio un optional per chi fa il mestiere dell’insegnante oggi.
Senza considerare anche il fatto che così diventa facoltativo l’esercizio effettivo di un diritto, per garantire il quale la comunità nazionale investe risorse finanziare – non elevatissime, ma comunque non irrilevanti -. È un po’ come, per un atleta, richiedere e ottenere gli attrezzi di cui ha bisogno e voler conservare la facoltà di non sentirsi obbligato a utilizzarli.
Non è proprio un bel pensare. O no?
Non basta comunque dire “obbligatorietà”. Le carte da giocare
Tre considerazioni finali e qualche idea.
1. È da ritenere che questo contratto piaccia alla maggioranza degli insegnanti e del personale tutto. Ma credo però che piacerebbe ancora di più al mondo della scuola, in vista del prossimo CCNL, un eventuale impegno – del ministero (e soggetti competenti, a partire dalle università e dalle Associazioni professionali e culturali) e dei sindacati – volto a ripensare globalmente la formazione, partendo in primo luogo dalle criticità dei modelli che finora hanno tenuto banco nelle pratiche delle nostre scuole. E poi anche dalle esperienze più interessanti e incisive maturate un po’ dovunque sul territorio nazionale e fuori di esso.
2. Se qualificare la formazione e ridarle appeal e senso sono le carte vincenti, si tratta in rimo luogo di liberarla dagli schemi organizzativi che l’hanno resa inappetibile, ma anche inutile e demotivante, sia collegarla contestualmente
– allo sviluppo, in primo luogo, di competenze che valgano a gestire le concrete difficoltà di fare scuola ogni giorno, in questa fase di grandi trasformazioni e difficili capovolgimenti; ma anche
– a misure concrete che sviluppino motivazione e interesse e valorizzino la cura delle professionalità.
Tra queste ultime, andrebbero previste – da quando se ne parla? – soprattutto quelle che favoriscano la connessione tra formazione e luoghi di lavoro (i CdC, I dipartimenti, i gruppi di progetto eccetera, opportunamente sostenuti e orientati, ove il caso, da personale esperto e qualificato) dove i problemi e le difficoltà si toccano con mano e interrogano le esperienze e la cultura del gruppo, e anche le competenze di ciascuno. In altri termini: i luoghi di lavoro collegiale pensati, strutturati e gestiti come ambienti anche di formazione-autoformazione.
Una diversa articolazione dei collegi[3] in Comunità di pratiche educative (rileggere Shon, e Sergiovanni[4] ) potrebbe essere una tappa importante in un progetto di costruzione di comunità professionali e quindi di comunità scolastiche all’altezza del loro compito.
3. Prima ancora però bisognerebbe motivare alla formazione in quanto strumento preliminare di qualificazione del fare scuola. Per esempio
a. scongelando l’impegno orario degli insegnanti e riorganizzandolo secondo nuovi parametri coerenti;
b. promuovendo politiche sindacali innovative che riconoscano e favoriscano questo impegno con opportuni riconoscimenti economici e valorizzandolo, attraverso opportuni crediti, ai fini della progressione di carriera[5].
Si potrebbe forse dire conclusivamente che la battaglia per una formazione partecipata e di qualità si vince non rivendicando diritti senza offrire contropartite, e forse neanche con una obbligatorietà che potrebbe avvilirsi in partecipazioni passive, senza crescita e allargamento di orizzonti;; ma con un progetto, non certo a costo zero (non si fanno nozze coi fichi secchi, come si dice), di cui si avverta il senso e la fattibilità.
NOTE
[1] A significare la diversità dei punti di vista sull’operazione in sé che si è voluta tentare con il PNF, v. Mariella Spinosi Formazione insegnanti, in “Repertorio – Dizionario normativo della scuola 2018”. Tecnodid che considera il PNF, “in sé e al di fuori di ogni giudizio”, “una svolta” nella storia della nostra scuola.
[2] Cfr. R. Rovetta, ‘Una prima “lettura” del nuovo Contratto sulla formazione in servizio – Scuola7del 25 novembre u.s..
[3] V. anche al riguardo, GC Cerini, Le nuove responsabilità del Collegio dei docenti nel piano di formazione di istituto – Scuola7 del 2 dicembre 2019.
[4] D. Shon, Il professionista riflessivo, Dedalo, Bari, 1993; T. Sergiovanni, Costruire comunità nelle scuole, LAS 2000. V. anche E. Wenger, Comunità di pratiche. Apprendimento, significato, identità, Cortina 2006-
[5] Non andrebbero comunque escluse anche misure penalizzanti, per esempio volte a bloccare La progressione stipendiale a chi si sottrae nel corso degli anni, a qualsiasi forma di cura della propria professionalità.