Intellettuali e scuola
di Stefano Stefanel
Proviamo a simulare un’ipotesi di lavoro (suffragata però da prove pubbliche – leggi articoli e libri – quasi inconfutabili) e proviamo a trarre delle conclusioni come se quest’ipotesi fosse reale. Per prima cosa costituiamo una squadra di intellettuali, che – a vario genere – negli ultimi tempi si sono occupati di scuola, anche con una certa invasività e sicurezza (che non è chiaro da dove gli venga). I nomi: Massimo Cacciari, Giovanni Floris, Susanna Tamaro, Paolo Crepet, Paola Mastrocola, Umberto Galimberti, Alessandro D’Avenia, Ernesto Galli Della Loggia, Angelo Panebianco.
Simuliamo sei domande e proviamo a prevedere sei risposte.
Poiché sono fermamente convinto che andrebbe così adesso provo a capire come sia possibile dare risposte contraddittorie, creando di fatto un corto circuito interpretativo, pur nell’ambito di un pensiero complesso ma ben organizzato. E’ abbastanza agevole comprendere come non si possa combattere la dispersione bocciando di più, come non si possano migliorare le competenze informatiche vietando l’uso degli strumenti multimediali (device) a scuola, come sia impossibile cementare competenze solide e spendibili se non si lavora nell’ambito di una didattica per competenze. Riconosco che è più complesso comprendere come questi pensieri contraddittori possano convivere nella stessa mente o nella stessa persona: è vero che siamo dentro una simulazione, ma è anche vero che gli intellettuali citati (compresa la più estremista e reazionaria tra tutti, Paola Mastrocola) più volte e pubblicamente si sono espressi sui temi che ho citato, con argomenti che si possono far risalire alle mie ipotetiche domande.
Provo ad individuare alcune interpretazioni che riporto di seguito. La prima interpretazione si lega ad un’idea elitaria e universitaria di cultura, per cui non si possono dare patenti di alcun genere agli ignoranti e per cui una volta stabiliti degli standard intellettuali chi non li raggiunge deve essere bocciato. Questa idea intellettuale cozza contro la realtà pratica in cui né il Ministero italiano, né l’Unione Europea, né l’Ocse, né l’Onu si sono mai sognati di fissare questi standard culturali, che invece gli intellettuali italiani ritengono di avere bel saldi in testa. Per cui credo che veramente l’intellettualità italiana (rappresentata sul fronte della pubblicistica scolastica da chi ho citato), che per lo più insegna nelle Università, ritenga che bocciando di più si produce minor dispersione, perché i bocciati capiscono che si fa sul serio e si mettono a studiare. Così come ritengo che molti intellettuali e troppi insegnanti pensino che vietando l’uso dello smartphone a scuola e costringendo soggetti digitalizzati ad utilizzare i libri si migliori lo studio e si potenzino le competenze digitali. Secondo questo pensiero dovrebbe accadere che, al pomeriggio, quando tutti gli studenti sono connessi mentre fanno i compiti per casa e studiano, l’uso consapevole del web migliora perché attraverso la repressione gli studenti comprendono la necessità di un uso selettivo e culturale del web. Infine credo che tutti gli intellettuali (me compreso se posso ritenermi tale) non si farebbero mai aggiustare un impianto elettrico rotto o trapanare un dente cariato da un soggetto non competente, ma dotato di molte conoscenze e molte abilità, però ugualmente la crociata contro le competenze sta facendo strada. Alla base di un pensiero contraddittorio, spacciato per realistico e coerente, c’è in questa prima interpretazione la certezza che se si comunica in modo preciso e deciso che bisogna studiare tutti gli studenti immediatamente si mettono a studiare. E’ la vecchia idea delle elite, che sanno più del popolo cosa serve al popolo.
La seconda interpretazione è più impietosa: chi più chi meno gli intellettuali sono comunque tutti benestanti o ricchi. Lo sono diventati per merito e studiando (qualcuno con qualche scorciatoia, ma niente di che, comunque i migliori vanno avanti) e dunque si stupiscono di come non sia evidente a tutti che studiando si raggiunge anche un benessere economico che, ovviamente, permette di ragionare sul mondo e non solo su come sbarcare il lunario. Poiché, ovviamente, primum vivere, deinde philosophari l’intellettualità italiana non si capacità di come una fetta consistente di studenti si accontenti del vivere, traguardo in sé non difficilissimo da raggiungere in una società occidentale come è quella italiana, e non decida di investire per poter “filosofare” a portafoglio pieno. Il punto di partenza per cui in Italia ci sono oltre un milione di giovani Neet (cioè di ragazzi che non studiano e non lavorano), che le competenze digitali degli italiani sono deboli rispetto a quelle dei giovani degli altri paesi dell’area Ocse e che il mondo cerca competenze certificate e spendibili interessa poco o niente, perché i tre problemi non vengono rapportati alle bocciature, alla proibizione dell’uso dello smartphone a scuola, della repulsione della scuola italiana (in molta parte) per il concetto di competenza, vista come una sorta di diavoleria tecnica priva di contenuti reali.
La terza interpretazione è che il mondo universitario e della comunicazione scritta sia uscito dalla percezione dei problemi reali della scuola che ha quotidianamente a che fare con otto milioni di studenti di tutti i tipi, mentre l’intellettualità italiana ha a che fare con studenti universitari lontani dai problemi della scuola di base (quella dei BES, dei Dsa, dei diversamente abili, degli stranieri di prima e di seconda generazione, degli stranieri senza conoscenze di lingua italiana, dei bambini e dei ragazzi figli di famiglie dedite ai selfie e a whatsapp e non alla lettura di qualsivoglia cosa sia stampata su una carta, con la sola eccezione forse degli scontrini fiscali). Quindi i ricchi possono scegliere tra carta e web e possono trovare nella scuola un utile accompagnamento per la scelta migliore, i poveri stanno tutti ammassati nel web abbandonati dal sistema dell’istruzione e selezionati da una società che si rifà a modelli intellettuali del secolo scorso.
La lettura dei testi prodotti dagli intellettuali citati sulla scuola mostrano una grande incomprensione di quello che è il suo essere un fenomeno obbligatorio e di massa. Mi pare sfuggono loro alcuni concetti-base: l’obbligo non può accompagnarsi alla selezione, un sistema che lascia indietro le persone è un sistema che poi ne pagherà le conseguenze, la cultura è un punto di arrivo non di partenza. Però i miei vagiti di nicchia nulla possono contro i tuoni della potenza mediatica loro (giustamente) concessa. E dunque il loro pensiero – folle e distruttivo – sta entrando sempre più nell’immaginario comune, anche di coloro che lavorano a scuola. Questo immaginario è purtroppo anche attratto dall’idea che, dato che l’insegnante e la scuola hanno perso la grande stima sociale che un tempo avevano, bisogna mettere in atto qualche vendetta e far capire con la forza quello che con la persuasione, la didattica e la pedagogia non si è riusciti a far capire.