La vecchia casa era bruciata, perduta per sempre nell’ asfissia di un vicolo, una mattina del Novembre del 1968 e noi costretti ad abitare in un garage e a cercare una nuova casa.
A Settembre del 1969 mia madre ricevette, come insegnante a tempo indeterminato, l’ incarico di aprire la sezione unica della scuola materna statale di San Vincenzo Valle Roveto e le venne assegnata l’ abitazione al primo piano della scuola.
Quell’ autunno però, fino a Natale, avremmo dovuto viaggiare con il treno, tutti i giorni: c’ erano ancora molte cose da sistemare prima di occupare il nuovo alloggio. Avevo tre anni e cominciò la mia vita di pendolare.
I lunghi singulti della locomotiva prima della galleria di Capistrello, nella nebbia dell’ autunno marsicano, sembravano le voci delle nuove stanze risuonanti d’ eco. La nuova casa, in quel nuovo paese, disteso fra gli ulivi, era straniera ed inquietava come un labirinto: un intrico di vuoti da riempire, di mattine in cui svegliarsi senza l’ odore di calce e colonia di mio nonno e il furtivo acciottolar di piatti di zia Chiarina.
Cercavo di consolarmi animando le stanze deserte con i volti familiari e con le voci dei maestri e delle maestre che in treno partivano e andavano a fare scuola nella Valle.
C’ era Magda alta e bella, con un malinconico accento istriano, scendeva elegante alla stazione di Morino e poi saliva a piedi a Civita D’ Antino; Egle bionda e minuta che scompariva silenziosa fra le porte a soffietto del vagone quando arrivavamo nei pressi della stazione di Castronovo: andava in bagno ad infilarsi i vecchi calzoni di suo padre per salire sul mulo che la portava a Rendinara; Marta, infine, che aveva lenti spesse da miope e indossava impeccabili soprabiti con le maniche alla raglan, era più fortunata: proseguiva, con i maestri Ilio, piccolo e allegro, e Armando, dinoccolato e timido , per Balsorano, dove saliva per un largo tratturo fino alla scuola di Ridotti.
Ce n’ erano tanti altri che non ricordo o di cui ho scordato il nome ma non i gesti. Su quella tradotta che partiva da Avezzano, alle sei del mattino, viaggiava l’ esercito dei maestri e delle maestre inviato nell’ entroterra abruzzese, ai confini con la Ciociaria, a sconfiggere l’ analfabetismo ancora esistente alla fine degli anni sessanta.
Le maestre e i maestri della Valle del Liri si muovevano coraggiosi e guardinghi, inerpicandosi per la costa a piedi, risalendo i ciottoli dei sentieri a dorso di mulo o scivolando sulle pietre muscose e il fango, lungo il fiume.
Non erano “scuole di frontiera” le loro, ma piuttosto era quello, tra gli Ernici e i Cantari, il “fronte della scuola”, la linea Gustav abruzzese dell’ istruzione obbligatoria e gratuita per tutti, contro la deprivazione culturale e la miseria economica che riempivano il cartone delle valige di stracci e costringevano uomini e donne alla partenza forzata per i bacini minerari del Nord Europa, le fabbriche di orologi in Svizzera, le acciaierie Tyssen in Germania.
I maestri e le maestre della Valle Roveto combattevano ogni giorno, miti e pazienti operatori di pace, affinché gli usci non si chiudessero, non ci fossero “orfani bianchi” in attesa del ritorno dei genitori e gli abiti delle donne non si tingessero del nero di Marcinelle o Villerupt.
Erano loro, partigiani della scuola di tutti e di ciascuno, a tessere gli agguati della sperimentazione pedagogica, a punzecchiare, con azioni di disturbo, l’ inerzia dei comuni, ad organizzare i doposcuola e tenere accese le stufe con legna di cipresso, ad andare a prendere i ragazzi fra le greggi per portarli a scuola.
Erano loro ad aver capito che un’ altra Resistenza era cominciata dopo il 25 Aprile e che il nemico degli umili è quello che sottrae loro le parole e con esse la volontà di leggi migliori, uniche armi dei deboli contro i soprusi dei forti.
La nuova casa non era la sola novità della mia vita: a Maggio sarebbe arrivato un fratellino o una sorellina, precisamente il 24 Maggio aveva detto il dottore a mia madre o così almeno, avevo capito io.
Sicchè quando durante il viaggio in treno, Marta che era burlona mi chiedeva: “Quando arriva il fratellino ?”
Io rispondevo con la buffa sicumera dei bambini piccoli quando s’ aggrappano alle date “Il 24 Maggio!”
Allora l’ intero vagone all’ unisono attaccava: “L’ esercito marciava per raggiunger la frontiera..” ed io ridevo anche se la frontiera mi sembrava lontana.