Luciano è alto per la sua età – quasi un ragazzo -e le sue spalle cominciano a delineare l’ armonica proporzione della vita. Ad Andrea, più piccolo, magro e nervoso, si sono improvvisamente allungate scarpe: non sa più dove mettere i piedi.
In classe ripassiamo la funzione dei nomi propri ma loro confabulano di chissà quale gioco o quali figurine, navigando le quiete delle morbide insenature dell’ infanzia.
Marta arriva in ritardo, si ferma sulla porta: lo zaino in spalla ma l’ astuccio appoggiato all ‘ incavo del braccio sinistro.
Sotto il grembiule bianco, sbottonato, ostenta la grazia acerba della sua incipiente primavera. Prima di sedersi al suo posto scioglie con un gesto antico e sapiente, il laccio che le ferma i capelli lunghissimi. Scuote la testa: la sua superba chioma color castagna ondeggia nel mattino. E’ il segnale: l’ antico rituale della danza della femmina e del maschio che comincia così, un mattino d’ autunno, a scuola, con un’onda profumata di capelli che trascina i ragazzi al largo, verso le burrasche e le inquiete promesse delle isole della pubertà dove li attendono turgori e batticuori, un balenar di grazia e di paura nell’eco di grotte marine inesplorate, popolate di sirene, tritoni, ombre e inciampi di stalattiti inaspettate.
Andrea e Luciano vengono risucchiati in quel vortice che fa cambiar loro, improvvisamente, il tono della voce e li rende teneramente impavidi come gli eroi dell’ Iliade, li perde nei labiriti di un poema cavalleresco, in una giostra di inseguimenti, nascondimenti, ritrovamenti che portano scompiglio anche nelle parole: ciascuna significa sè stessa, il suo contrario e qualcos’ altro che fa ridere e rende molli le gambe.
La classe diventa così il campo di battaglia nella “guerra degli ormoni”. Ma noi maestre, non faremo in tempo ad assistervi: tra scaramucce e provocazioni s’ arriverà a Giugno, e loro, i ragazzi, andranno via a combattere le loro battaglie sotto gli occhi dei nostri colleghi di scuola media.
Ai nostri colleghi professori, sarà dato l’ ingrato compito e l’ immane fatica di sistematizzare i primi nodi dei saperi disciplinari e presiedere alla ridefinizione degli equilibri ormonali dei loro alunni adolescenti. Figli di Ermes e Afrodite, gli adolescenti non hanno altra corazza se non le ali dei propri sandali, vivono come se derubassero giorni al futuro e inseguono segrete e sconosciute armonie.
In questo sono creature lunari che sfuggono ai nitidi contorni del giorno, sono banditi di frontiera che spostano il confine e forse per questo, nella scuola media del mio Paese, la Preside Barbadoro, quarant’ anni fa ci confinava nella corazza di un grembiule nero: lungo per le femmine,” alla cosacca” per i maschi. L’ unico luogo nel quale, a scuola, potevamo sperimentare lo spostamento dei confini dei nostri reciproci campi di battaglia, nella nostra “guerra degli ormoni” (mantenuta segreta, nonostante fosse la fine degli anni settanta e due ondate di contestazione giovanile avessero travolto i dettami dell’ antica educazione sentimentale) era la palestra.
Sebbene continuassimo ad essere distinte classi, femminili e maschili , affidate ad insegnanti diversi,maschio e femmina, la palestra era il luogo ed il tempo dove i nostri corpi potevano essere immaginati, confrontati, liberati in un tripudio di forme , di odori, di inconfessabili desideri di essere spiati e desiderati.
La palestra era il pascolo del nostro Cantico dei Cantici e noi eravamo come “gigli tra le spine”, “meli tra gli alberi del bosco”, “giardini profumati di mirra e incenso”.
Impiegavamo interminabili mezz’ ore a prepararci per la lezione sfoggiando pantaloncini attillati e tute da ginnastica d’ improbabili colori. I maschi, con il tempo bello , venivano trascinati dall’ imperio del professor Vicini, un ragazzone di un metro e novanta, al campetto, dove tra l’erba e la ghiaia, sperimentavano le azzuffaglie del rugby, noi femmine restavamo, con la professoressa Taricone, in palestra a sperimentare gli esercizi di corpo libero e i salti della pallavolo. Tornavamo negli spogliatoi portandoci dietro scie odorose: i maschi ostentavano le loro sbucciature di ginocchia e di gomiti con la spavalderia degli eroi e gli occhi piena di segreta voglia di piangere dei bambini. Noi scioglievamo i nostri capelli sudati e scuotevamo la testa: in quel momento credevamo d’ essere venute alla terra perchè si compisse l’ eterno ed antico miracolo del naufragio degli occhi di maschio nell’ acqua infinita dei nostri occhi di femmine.