di Marco Guastavigna
(per gentile concessione dell’autore e del Giornale Cobas)
Fin dal Programma di sviluppo delle tecnologie didattiche (1997 -2000), passando per l’iniziativa di formazione FOR TIC e arrivando al citato PNSD, le campagne di diffusione del Ministero sono state connotate – oltre che da prosa barocca e sempre più evidenti difficoltà espositive – da pregiudizi ricorrenti, a cui sono seguiti i medesimi problemi e gli stessi, deludenti, esiti.
In tutti i documenti e i provvedimenti, il rapporto tra docenti e strumenti (sempre presentati come “nuovi”) ha tre presupposti fondanti:
- l’uso della tecnologia prevede conoscenze proprie e neutre, da acquisire in fasi successive, da un livello basico ad altri, più ampi, prevedibili e programmabili da una formazione centralizzata;
- gli effetti dell’innovazione tecnologica sono ridotti, a causa di infrastrutture e investimenti limitati, ma soprattutto della mentalità arretrata di troppi insegnanti italiani;
- gli insegnanti devono costruire un rapporto evoluto con il “digitale”, ambiente privilegiato e vincolante per l’innovazione di metodi e didattica, pena la propria obsolescenza.
Da questa visione derivano, per esempio, le campagne per la diffusione dei PC alla fine dello scorso millennio o delle LIM in questo, oppure le mitologie prima dei learning object e poi degli ebook, per arrivare a classi e scuole 2.0: un accavallarsi di storytelling didattico di cui nessuna ricerca scientifica autentica ha mai verificato l’efficacia effettiva.
In parallelo, sono state concepite figure professionali a cui delegare la gestione: gli Operatori tecnologici nella scuola di base degli anni ’90 – frutto soprattutto degli esuberi di Educazione tecnica -, i consulenti esperti destinatari dei percorsi formativi di tipo B erogati tra 2002 e 2003, fino agli “animatori digitali”: solo gli “evangelisti” del ministro Giannini non hanno trovato consacrazione.
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