L’alunno disabile non ha il “suo” insegnante, ma i “suoi” insegnanti

di Evelina Chiocca

L’errore di fondo è, per molti, è di ritenere che a scuola “solo il docente di sostegno” possa e debba assicurare il percorso di crescita e di formazione dell’alunno con disabilità. Si tratta di una visione totalmente distorta!!! L’inclusione si realizza grazie “alla sinergia e alla collaborazione reale” di tutti i docenti della classe.
Il docente “incaricato su posto di sostegno”, da solo, non garantisce gli apprendimenti né l’attuazione del processo inclusivo.
Insistere su un’unica figura professionale è controproducente e non è neppure in linea con l’impostazione di “integrazione” introdotta negli anni Settanta del secolo scorso e di “inclusione”, oggi.
Eppure stampa, servizi dedicati, servizi giornalistici, come pure le testimonianze di alcuni docenti, ripropongono questa impostazione, consolidando una “pseudo-cultura”, direi, opposta rispetto a quella che l’inclusione promuove.

Pertanto:

  • coloro che scrivono articoli nei quotidiani, nei giornali on-line, o in riviste dedicate, in blog o altro, come pure chi propone servizi radiofonici o televisivi, dovrebbero adottare un linguaggio corretto e offrire informazioni puntuali, non distorte o condite dal “sentito dire“; l’attenzione va posta non solo ai termini, ma anche e soprattutto al senso e al significato di questo processo,
  • i docenti dovrebbero riferire in modo corretto “la loro professione”. In particolare dovrebbero mostrare di conoscere i compiti che, contrattualmente, sono tenuti a rispettare, approfondendo le competenze ‘non possedute’ in tema di inclusione, onde evitare:

a) “deliri di onnipotenza”, per cui il bambino o il ragazzo impara “Se ci sono io, altrimenti no” (se ciò avviene, si deve registrare il fallimento e non il successo, perché, e i docenti ben lo sanno, “generalizzare” gli apprendimenti, e quindi anche i comportamenti acquisiti, per gli alunni costituisce una delle più grosse difficoltà);
b)  di pensare che senza di lei/lui “l’alunno non possa imparare”;
c)  di puntare unicamente sul “proprio ego” e su “un rapporto esclusivo con l’alunno”, mentre dovrebbero favorire la collaborazione “consapevole e corresponsabile” con i colleghi;
d) di stabilire un rapporto simbiotico ed esclusivo (di conseguenza “e-scludente”) anche con la famiglia: l’alleanza scuola-famiglia si costruisce fra “tutti i docenti della classe” e la stessa “famiglia”

  • genitori, insegnanti e giornalisti (e la società nel suo insieme) dovrebbero imparare a chiamare gli alunni per nome, riconoscerli come persone e non come “sindromi o disturbi”!!! A scuola gli insegnanti lavorano (e devono lavorare) con “persone“, per l’appunto gli alunni e le alunne, e non con un disturbo, una sindrome o, come sempre più frequentemente si sente dire, con una patologia!!!

Già i padri della pedagogia affermavano che la disabilità non è una malattia!
L’alunno o l’alunna con disabilità non è il suo disturbo, non è una patologia, non è la “sua disabilità”.
Se davvero il nostro comune obiettivo è di costruire una società in cui ciascuno sia chiamato per nome, sia riconosciuto come persona, sia rispettato come unicità, allora dobbiamo uscire da questi pericolosi e devianti stereotipi, che portano alla deriva e che trascinano, pericolosamente, verso la separazione, la divisione e l’emarginazione, dando vita alla “classe speciale” nella “classe comune” e alla ormai non più così remota ipotesi di riproporre le scuole speciali.
Iniziamo a cambiare noi, noi che nella scuola agiamo ogni giorno. Modifichiamo espressioni e lessico. Adottiamo nuove prospettive. Abbracciamo l’unica modalità possibile: quella in cui l’alunno con o l’alunna con disabilità è alunno di tutti i docenti della classe che, con responsabilità condivisa e con professionalità, lavorano insieme per promuovere lo sviluppo delle potenzialità di apprendimento, di socializzazione, di relazione e di comunicazione.

Il cambiamento è possibile: comincia da noi.