di Ugo Cardinale
Sono rimasto profondamente amareggiato dalla piega che ha preso il dibattito di Repubblica sulle difficoltà di apprendimento degli studenti rilevate dalle prove INVALSI.
In primis constato con sorpresa la denuncia dei mali della scuola italiana attribuiti alla “democratizzazione del sapere” di cui sarebbe stato artefice Tullio De Mauro, fantasma evocato – e neppure menzionato – da Silvia Ronchey (nell’articolo su Repubblica del 12/07/‘19, che ha avviato il dibattito) come se dovesse subire per chi sa quale colpa anche quest’ultimo affronto di “damnatio memoriae”.
Tullio De Mauro, che era già stato identificato, a pochi giorni dalla sua morte, come responsabile della “disfatta della lingua italiana” e accusato da Ernesto Galli della Loggia (Corr. della Sera, 07/02/‘17) di essere stato fautore di un “ribaltamento in senso democratico (sic) della pedagogia linguistica tradizionale”.
A parte la curiosa svalutazione delle parole “democrazia” e “democratico”, identificate (sulla scia di una tradizione settecentesca) con il pericoloso estremismo rivoluzionario, svalutazione che mette in dubbio l’obiettività di chi opera questa denuncia, suscita sdegno la falsificazione dei fatti che non ci si aspetterebbe da chi ha a cuore la filologia, in riferimento all’opera di divulgazione scientifica prodotta dalla collana dei “Libri di base”, curata da De Mauro per gli Editori Riuniti.
La ricostruzione accurata degli obiettivi di quella collana può facilmente smentire la tesi secondo cui “proponeva libri in cui non fosse usato che un numero limitato di vocaboli” e dimostrare invece che l’obiettivo della chiarezza e trasparenza comunicativa dovesse essere l’idea regolativa dell’informazione scientifica, non chiamata “divulgazione”, per quel tanto di presunzione di separatezza dal volgo che tale termine evoca.
Di qui la preoccupazione di De Mauro, condivisa con altri linguisti, di “dare una nuova norma, una nuova etichetta (per non dire etica) nello scrivere: usare le centomila parole non comuni soltanto a patto di glossarle e renderle comunque evidenti in contesti costruiti con le quarantamila comuni” (T. De Mauro, Ai margini del linguaggio, Editori Riuniti 1984, pag. 57).
È paradossale che lo studioso che ha dedicato la sua vita a documentare l’italiano nei suoi più diversi livelli di frequenza fino a produrre quell’opera monumentale che è Il GRADIT, il grande Dizionario dell’uso in 8 volumi, che distingue le diverse marche d’uso, sia stato accusato di aver confinato l’insegnamento linguistico “a un numero limitato di vocaboli”. Strano destino di un grande studioso che ha anche coltivato le lingue classiche, al punto che a lui era stato affidato il ruolo di co-editor per le lingue classiche e per l’italiano del Lexikon Grammaticorum, curato da Stammerjohann per l’Editore Niemeyer di Tubinga.
Perché non combattere un “nemico” ad armi pari? Non si può scegliere un capro espiatorio che non può più difendersi e togliere la parola ai suoi difensori. Quello che è successo a Raffaele Simone (che certamente non è uno sconosciuto) è particolarmente grave, indice di un’involuzione del nostro sistema informativo.
Ma forse la trasparenza informativa nella democrazia di oggi è un pericoloso sovversivismo!