L’originale contributo di Raffaele Iosa sta suscitando le riflessioni dei nostri lettori.
Pubblichiamo qui l’intervento di Tina Naccarato, docente specializzata di scuola primaria
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Ormai più di 20 anni fa, un eccellente docente universitario utilizzava in maniera reiterata e quasi provocatoria il termine cultura dell’analgesico. Chi scrive, a quel tempo studentessa molto giovane e certamente non avvezza e tantomeno propensa a ricorrere ad analgesici con frequenza, inizialmente accolse tale termine con una certa leggerezza, come un’immagine, una trama, un vezzo dell’argomentazione.
Eppure, a tanti anni di distanza, si ritrova a ricordarlo sempre più spesso, a cercarne vecchi e nuovi significati, ad imparare ancora da quanto imparato rinnovandone sensi ed accezioni alla luce dei tempi che sono.
Ogni analgesico, infatti, è come un oppio che seda e risponde alle impellenze di una diagnosi. Il dolore, l’imperfezione, il difetto devono infatti oggi trovare un farmaco, un medicamento, Se non è cura è terapia, ma non si sfugge.
Così come è vietato invecchiare e sorgono chirurgie miracolose e mirabolanti attraverso cui tutti, più o meno, possono sperare di avere per un tempo indefinito un’età indefinita. E dove non arriva il chirurgo arrivano le magiche correzioni alle immagini, per correggere rughe o capelli bianchi, così da sembrare in foto, almeno sui social media, eternamente giovani.
Sulla stessa via veniamo così alla clinicizzazione dei figli, da aggiustare in qualche modo, se non perfetti. E se proprio perfetti non sono, bisogna diagnosticarlo, così non ci sono colpe e responsabilità. Il bimbo, finalmente medicalizzato, può dunque permettersi di essere imperfetto. Diviene possibile anche fare a meno di quella faticosa resilienza, perché le difficoltà sono descritte nei certificati e dunque anche lo sforzo per superarle può essere ridimensionato.
Certo, è bene precisare, non si vuole qui in alcun modo sminuire la portata, le ricadute o il grande impatto traumatico che una disabilità comporta a chi la vive ed alla sua famiglia. Non è certo questo il senso del presente breve intervento. Tuttavia, non si può non rilevare, come acutamente ha fatto R. Iosa, il proliferare di un diagnosticismo crescente e non può non sorgere il dubbio che una parte di esso risponda ad un bisogno sociale di clinicizzare per anestetizzare.
Se qualcosa sembra non andare come atteso serve un medico, una terapia, un analgesico, perché l’imperfezione non ha cittadinanza.
A scuola sarà inclusione o piuttosto, come osserva Iosa, prevale la certificazione ideologica di chi non si riesce ad adattare in modo naturale e attivistico alla scuola?
Sarà ancora possibile una visione olistica dell’alunno con certificazione oppure la strada è ormai aperta per la restaurazione di una contestata medicalizzazione di antica memoria? Chi scrive sposa con ostinazione la speranza di una visione organica dell’individuo, nelle sue peculiari specificità, ma teme la deriva atomizzante, la pedagogia del sintomo, fino agli estremi della farmacologia, perché ne ravvisa le tendenze, anche nelle famiglie: l’insegnante è mio e me lo gestisco io, perché mio figlio ha questo ed ha bisogno di questo…
E l’inclusione? Cosa resta? Il groviglio della burocrazia, le giacchette tirate alle nomine dei supplenti, la presentazione dei documenti secondo lo scadenzario della scuola? E in classe invece?
La parcellizzazione delle personalizzazioni e delle individualizzazioni, rigorosamente elencate nere su bianco per scongiurare i ricorsi un giorno sì e l’altro pure? Cosa resta però dello sguardo su di sé e sull’altro, dell’accoglienza della differenza, ma vera, reale, concreta, fatta anche delle nostre imperfezioni? Siamo ancora in grado di accettare senza giustificazione, di volere nonostante, di amare incondizionatamente?
Eppure servirebbe assai, perché la vita è continuum, è divenire, è cambiamento è possibilità: ogni giorno un’etichetta spegne il sogno di un bambino, gli toglie speranza, se essa perde la sua funzione di strumento per il supporto per divenire dispositivo giustificazionista.
Chi assume quest’ultima visione, va da sé, potrà forse fornire analgesici, ma non potrà mai insegnare a superare il dolore dell’accoglienza della specificità, che, sia pure imperfetta, rimane comunque la sola modalità e possibilità di esistenza, la vita stessa.