Il dibattito sulla cosiddetta intelligenza artificiale è sempre più sciatto e polarizzato: a raffiche di affermazioni apodittiche – improntate al sommo ottimismo o al massimo ottimismo, poco importa! – si affianca un’analisi asfittica.
Una delle sciocchezze più diffuse è l’impiego del termine “strumento”. È davvero stancante dover ripetere che abbiamo invece a che fare con dispositivi: contengono e dispiegano pre-decisioni, regole d’ingaggio, condizioni di impiego (anche economiche e discriminanti), mettono in atto retro-azioni e feedback, monitorano interazioni (non sempre in modo chiaro e trasparente). E così via. Per non parlare dell’appiattimento su ChatGPT, su cui fioriscono corsi e corsetti, webinar gratuiti e a pagamento, manuali che esigono il pagamento di royalties e altre iniziative di sfruttamento dell’approccio tecnocratico.
Nella stragrande maggioranza dei casi, inoltre, si trascura una questione per altro non nuova, ovvero la progressiva e totale privatizzazione della sfera pubblica e della conoscenza, già largamente praticata e accettata prima che l’emergenza del lockdown la rendesse sintassi della vita collettiva e individuale. Questione squisitamente politica, che l’impostazione e la gestione centrale e da parte delle singole unità scolastiche del PNRR moltiplica e rende sempre più drammaticamente risolta a favore degli attori del capitalismo cibernetico, ormai naturalizzati.
È perciò esclusivamente a titolo di (perverso?) gioco intellettuale che continuo ad approfondire, ad andare comunque oltre l’impressionismo digitale.
E così più esploro, più mi rendo conto che – nonostante il quadro ampiamente compromesso sul piano etico e civile – ci sarebbero spazi di riflessione significativa, qualora vi fosse desiderio di un dibattito autentico e sereno.
In primo luogo, è a mio giudizio sempre più evidente che, nel rapporto tra esseri umani e assistenti artificiali alle attività cognitive, ai secondi spettano compiti esecutivi e ripetitivi, mentre ai primi restano intenzioni, obiettivi, progettazione e (soprattutto) valutazione dell’efficacia del prodotto realizzato dall’agente digitale cui devono aver assegnato un compito preciso e definito in modo articolato.
In secondo luogo, è – sempre a mio giudizio – palese che è necessario che gli insegnanti e i loro derivati, anziché farfugliare ipotesi empiriche di attività scolastiche o pronunciare grotteschi anatemi, sperimentino e valutino gli agenti di assistenza cognitiva in prima persona sul versante intellettuale e culturale prima che didattico.
Un esempio di questo percorso di presa di consapevolezza è la “capacità tecnica” di alcuni dispositivi di transcodificazione di realizzare – in forme varie, dal sommario per punti a una vera e propria sintesi sotto forma di saggio – un riepilogo scritto del contenuto di filmati accessibili in rete, tipicamente da YouTube. Orbene: ciò è interpretabile come ennesima acrobazia operativa oppure come un’opportunità cognitiva.
Qualche tempo fa Gessetti colorati ha presentato la possibilità di estendere ipermedialmente un evento digitalmente riprodotto (un seminario online, la registrazione di una conferenza in prossimità, ma anche un filmato realizzato come manufatto culturale autonomo) mediante applicazioni a ciò dedicate, connettendo al flusso visivo immagini, testi, link e altri materiali di spiegazione, approfondimento, integrazione.
I dispositivi che ho appena indicato (Merlin, YouTubeDigest e altri) ci mettono nelle condizioni di intervenire nella curatela con un’ulteriore risorsa.
Quel che è importante comprendere è che il dispositivo macchinico si incarica degli aspetti più faticosi e ripetitivi (alzi la mano chi considera lo sbobinamento un’attività intellettuale!), mentre i redattori umani conservano pienamente il compito e la responsabilità di valutare la corrispondenza del riepilogo prodotto alla struttura, allo scopo e agli esiti dell’evento, che si desidera conservare e replicare in forma aumentata. Uno schema di elaborazione che, se praticato non come bizzarria innovativa, ma come apparato di meditato arricchimento globale – anche nella direzione dell’incremento della comprensibilità e dell’inclusione –, può valorizzare il patrimonio culturale condiviso mediante la rete.