Walled garden e business network fremono di sdegno: il ministro Bianchi – con una formulazione che, se riportata fedelmente, è lesiva anche della grammatica – ha ancora una volta sconvolto il proprio universo di riferimento professionale: “In Italia, in 4-5 anni, dobbiamo riaddestrare 650mila insegnanti per andare incontro ad insegnamento adeguato al futuro digitale e all’interconnessione globale che si è ormai prospettato”.
Ma come si permette? Riaddestrare, ovvero addestrare un’altra volta? Approccio davvero pessimo. Per non parlare dell’obbligatorietà della formazione, vulnus ricorrente e storicamente pluri-rigettato dalla categoria.
I contenuti di questa obedience 4.0, binomio esseri umani-dispositivi digitali? La solita confusione concettuale, il solito lessico nebuloso del marketing istituzionale: “Abbiamo investito 800mln per farlo e solo ieri abbiamo lanciato un progetto da 2,5mln per dare nuova formazione a chi insegna. Dobbiamo affrontare questo percorso per introdurre nella scuola l’intelligenza artificiale, la digitalizzazione collegata alla questione etica. Non siamo all’anno zero, abbiamo già dei buoni esempi ma ora dobbiamo spalmare questi primi buoni risultati per toccare i 10mln di studenti italiani”.
Prossimo al gramelot, ma del tutto coerente con le scelte di chi lo ha immediatamente preceduto, il rapporto con le piattaforme del capitalismo cibernetico e la privatizzazione della sfera dell’istruzione pubblica: “Il problema al quale stiamo lavorando con i tecnici del ministero è come le aziende del sistema globale possono essere d’aiuto per l’Ue e per l’Italia per raggiungere il risultato di questa diversa crescita formativa interpretando in modo corretto i nuovi linguaggi che devono usare ai vari livelli gli insegnanti di matematica, materie umanistiche, lingue e via dicendo”.
Potrei proseguire l’esegesi dell’esternazione, per esempio sottolineando che espressioni come “nuovi linguaggi”, “intelligenza artificiale”, “digitalizzazione”, “futuro digitale” e “interconnessione globale” siano tutte precedute da articoli determinativi e preposizione articolate, a indicare, ridotte a gergo, unicità di significato e quindi di senso, secondo la visione deterministica tipica dell’impianto ideologico tecnocratico e liberista, che si concepisce e presenta come unica alternativa possibile.
Potrei pertanto provare a contrapporre al succitato impianto mercatista e utilitarista, che innerva un “continente digitale” in cui la gran parte dei territori è sottomessa al controllo estrattivo delle aziende del capitalismo cibernetico, una visione delle tecnologie digitali attualizzate quali risorse per lo sviluppo umano e invitare a riflettere sulle differenze tra logistica di condivisione e logistica di intermediazione.
Preferisco invece tentare di far comprendere che le responsabilità culturali ed etiche – a proposito! – non hanno una sola matrice.
È da tempo evidente che le accademie italiane sono in larga misura e tacitamente asservite ai grandi player del capitalismo digitale.
Più in generale, però, vi sono alcuni aspetti culturali “istitutivi” di orizzonti antropologico-culturali subordinati e subordinanti, che vanno smascherati e analiticamente demistificati.
Il primo è aver accettato l’uso dell’aggettivo “digitale” preceduto dall’articolo “il” come definizione del contesto, delle caratteristiche operative, cognitive e culturali e delle implicazioni dell’impiego dei dispositivi elettronici nelle pratiche di mediazione didattica. Una parola-ombrello, un significante quasi vuoto, che ciascuno ha potuto, può e potrà intendere come più gli aggrada, con il risultato di rendere il dibattito confuso e confusivo, in quanto variabile dipendente di bias e interpretazioni soggettive, intessuta di pseudocondivisioni.
Il secondo è aver consentito la contaminazione della pedagogia dell’emancipazione da parte della prospettiva dell’innovazione e dei suoi sempre più allucinanti e allucinati derivati (didattica innovativa, strumenti innovativi, ambienti innovativi, insegnanti innovativi). Aver trasformato il rinnovamento da strumento a scopo, ha reso accettabili competizione, distruzione creatrice, sensazionalismo didattico, acquisizione di competenze individuali e adattive a un modello socioeconomico unico e indiscutibile.
Il terzo è essere caduti nella scorciatoia cognitiva che ha ridotto, riduce e ridurrà i dispositivi digitali attuali con intenzione estrattiva e capitalistica a “strumenti”, attivabili e governabili come tali: questo modo di affrontare il problema – miope, anzi accecante e quindi del tutto funzionale al progetto di dominio operativo e di egemonia culturale di GAFAM, NATU, BATX
– ha avuto particolare risonanza, perché rassicurante, nel periodo del distanziamento delle pratiche didattiche, ma è una forma di banalizzazione ricorrente anche nelle roventi discussioni di questi giorni.
Il quarto è costringere – anche per opportunismo personale – la riflessione, il pensiero critico e il dibattito collettivo all’interno delle piattaforme e delle applicazioni mainstream, finalizzate alla profilazione per il profitto, rinunciando a qualsiasi battaglia politico-culturale e sindacale per la costruzione, il finanziamento, la manutenzione di infrastrutture digitali “repubblicane”, aperte al controllo democratico, progettate e gestite sulla base dell’interesse generale, anche per quanto riguarda gli aspetti più tecnici del loro governo.
La resistenza culturale, professionale e operativa alla diffusione dei dispositivi digitali si attesta invece al più su una sorta di rifiuto tra l’intuitivo, l’olistico e lo snobistico, a volte sconfinante nel grottesco – per esempio quando arriva a sostenere che la scrittura carta-e-penna è la sola strategia cognitiva e la sola pratica operativa utile per la redazione di testi complessi, contraddicendo pareri espliciti di intellettuali insospettabili, opinioni per altro probabilmente ignote ai più.
Mancano insomma un’analisi attenta e soprattutto un’elaborazione alternativa, indipendente dall’agenda e dal lessico dell’avversario, che sia capace di – e, prima ancora, intenzionata a – costruire le basi e i riferimenti per una torsione delle potenzialità dei dispositivi digitali liberati dall’intenzione capitalistico-estrattiva nella direzione dell’emancipazione e del contrasto all’oppressione.
Del resto, abbiamo avuto una testimonianza recentissima: innumerevoli le segnalazioni indignate sull’errore a proposito di Verga nella prova di italiano dell’esame di Stato, quasi inesistenti quelle sulla consegna in merito all’iperconnessione, che rendeva invece evidenti la subalternità culturale e l’assenza di autentiche capacità critiche sia degli autori del testo citato sia dei selettori del medesimo.